Brand Activism: aziende che creano valore per la società

da | Feb 24, 2021

Fino a poco tempo fa l’azienda creava valore utilizzando risorse interne. Con la nascita e lo sviluppo del brand activism, il brand cerca di intercettare esternamente i movimenti più interessanti a livello politico, sociale e culturale coerenti con i suoi valori. Questi diventano parte della sua comunicazione e le permettono di passare dal purpose all’azione.

Il brand activism e la creazione di valore

Brand activism: l’attivismo di marca. Questo è il tema del webinar offerto da Attiviamo Energie Positive, un progetto di formazione gratuita lanciato da Produzioni dal Basso, la prima piattaforma di crowdfunding italiano.

Quando, come e perché i brand hanno iniziato a parlare di purpose e a prendere posizione su temi politici, sociali, culturali, etici? Ha provato a rispondere Matteo Roversi, Partner e Head of Brand Experience Design di Imille, agenzia creativa con sedi a Milano, Roma, Madrid e Santiago del Cile. Partendo dal libro di Philip Kotler e Christian Sarkar Brand Activism: from purpose to action, Roversi spiega come si è arrivati al brand activism e quale sia il suo ruolo.

La tecnologia e la pandemia hanno cambiato e disintegrato il modo con cui le persone si relazionano le une con le altre. Non solo, hanno alterato anche le modalità con cui le aziende si rapportano con i prodotti. Per questo è sempre più importante che i brand condividano gli stessi valori con i loro clienti. Se ciò non accade, il business soffre.

Il marketing tradizionale

Il modello di marketing tradizionale si basa sulle 4P di Kotler: product, price, place, promotion. Ma questo già lo saprai, non ti stiamo svelando niente di nuovo. Partendo da questo modello le aziende hanno investito tempo e denaro nello sviluppare servizi e strategie che le posizionano sul mercato. Il passaggio successivo è quello di difendere i loro prodotti e servizi dalla competizione.

Negli ultimi dieci anni questo modello ha iniziato a vacillare con la nascita di una nuova economia accelerata dalla tecnologia digitale che ha invaso tutti i settori, l’economia delle piattaforme (anche detta GAFAnomics in riferimento ai brand Google, Apple, Facebook e Amazon).

Una nuova forma di marketing

In questo contesto le aziende sconvolgono il paradigma classico del marketing utilizzato in passato, offrendo un prodotto o un servizio gratuito. Viene messa così in discussione una delle 4P, il price di Kotler.

«Queste piattaforme non considerano consumatori solo quelli che pagano un servizio ma una fascia più allargata di persone. Esse, infatti, includono le persone che creano commitment tramite l’iscrizione alla piattaforma o al servizio di newsletter. Non avvengono transazioni in termini monetari ma di dati personali che si trasformano in potenziale profitto» afferma Matteo Roversi.

Un altro grande cambiamento riguarda il target market. Le piattaforme parlano a un mercato che è globale, non a un mercato segmentato. Tutti, per esempio, possono accedere alla piattaforma di Facebook gratuitamente.

Nel modello del marketing tradizionale, il profitto deve essere immediato per rientrare nei costi d’investimento e di produzione di un servizio. Nell’economia delle piattaforme, invece, la creazione di valore e di profitto viene spostata sul medio-lungo periodo.

Un esempio riguarda il Kindle di Amazon. La società perde 2-3 $ ogni volta che vende il lettore elettronico di libri, guadagnando in seguito con la vendita di prodotti e servizi a esso collegati.

E infine, l’ultimo cambiamento riguarda il fatto che le persone non chiedono più solo i prodotti. Vogliono vivere vere esperienze.

L’economia delle esperienze

Questa nuova economia viene definita, per l’appunto, l’economia delle esperienze da Gilmor e Pine alla fine degli anni ’90. Essa influisce, per esempio, sugli spazi retail, che non sono più il luogo dove si fanno solo acquisti ma si può partecipare a eventi, corsi e chi più ne ha più ne metta.

«In questo contesto, l’approccio classico non ha più molto senso. Le aziende cominciano a mettere sul mercato non più i loro prodotti, ma i loro brand. Viene spostato l’asset della costruzione di valore e della comunicazione, non sull’aspetto tangibile dell’aziende, come i prodotti fisici e servizi, ma sugli asset intangibili, quelli che hanno a che fare con il posizionamento e con l’identità della marca» racconta Matteo.

E a proposito di esperienze, «la vera forza del nuovo marketing risiede nella possibilità di far vivere al consumatore un numero esponenziale di esperienze con un grado di personalizzazione elevatissimo». Scrivevamo così nel 2019 in un articolo dal titolo ‘Design, Marketing? Chiamiamole Esperienze‘. In esso, raccontavamo del magico incontro tra marketing e design e delle loro rispettive evoluzioni nel mondo digitale. Di come il processo di progettazione stesso sia diventato esperienziale e di come il design si occupi di «creazione di contesti esperienziali». Se vuoi leggere l’intero contributo, lo trovi qui.

La teoria del golden circle

Nel 2014 Simon Sinek, scrittore naturalizzato statunitense, partecipa a un Ted Talk in cui presenta il concetto del golden circle. Si tratta di un framework secondo il quale le persone non comprano quello che le aziende vendono ma comprano il perché. Tutte le aziende possono dirti con precisione cosa fanno, alcune di esse sanno dire come lo fanno, ma molto poche sanno dire perché esistono, perché stanno sul mercato, nella società.

I leader non dicono cosa fanno e poi spiegano come lo fanno e perché. Iniziano dal perché. In questo modo si crea una connessione molto più forte, una connessione emotiva con le persone a cui si vuole vendere il prodotto e il servizio. Non ci si rivolge a chi ha una necessità funzionale da svolgere ma a persone che condividono una serie di asset valoriali con l’azienda.

Quello definito da Sinek nel 2014 non è un concetto nuovo; già prima ci sono state aziende che hanno spostato il marketing dal prodotto al brand. Un bell’esempio è lo spot di Apple “Think different”. Da questo momento in poi, tra le aziende, si diffonde questo nuovo tipo di comunicazione, inseguendo l’asset valoriale invece che quello fisico.

Una fase di transizione

Le aziende hanno necessità di definire il loro scopo, quello che Kotler chiama purpose. Questa idea di purpose è accelerata dalla comunità economico-finanziaria.

Nel 2018 BlackRock scrive una lettera, affermando che non c’è profitto che non sia legato al purpose. Quindi il successo di medio-lungo periodo è garantito solo a chi si focalizza su di esso. Si parla allora di purpose-driven company.

Inizialmente le piattaforme rimangono neutrali: uniscono le persone che creano contenuto, ma non prendono posizione. Negli ultimi anni una serie di tematiche, tra cui fake news, bullismo, odio online, violazione di privacy, arrivano a toccare anche le piattaforme. Si crea così una frattura nell’ecosistema in cui esse avrebbero dovuto mantenere la neutralità. Questa disgregazione crea un senso di paura. Paura di aprirsi a qualcosa di ignoto, che è troppo grande da comprendere e controllare. 

Quando l’essere umano ha paura, cerca una risposta. Le istituzioni però vacillano e non danno le risposte che ci si aspetta di ricevere.

L’essenza del brand activism

Il brand activism nasce da paura e sconforto nelle istituzioni. Queste istituzioni che hanno lavorato all’interno di un mercato segmentato, capiscono che c’è un potenziale molto più grande, l’intera società.

Il brand activism viene definito da Kotler come «l’insieme degli sforzi che un brand compie per promuovere, impedire o influenzare forme o stati di inerzia sociale politici, economici o ambientali con l’intento di favorire od ostacolare il miglioramento della società.»

L’attivismo di marca è l’evoluzione della CSR (Corporate Social Responsability), in quanto le aziende sono focalizzate sulla creazione di valore all’interno dell’azienda. Ma deriva anche dal brand purpose. Infatti, le imprese stesse una volta definito il ruolo sociale e presa posizione, dalla definizione del loro scopo devono passare all’azione concreta. All’attivismo.

Questo movimento ha come focus i problemi più grandi e più urgenti che la società deve affrontare. In questo modo si vengono a creare aziende values-driven che, per essere definite tali, non devono ignorare i dipendenti, i clienti, la comunità in cui si opera e il mondo nella sua interezza. La dimostrazione dell’attivismo di un’azienda non si basa sulle affermazioni compiute, ma sulle scelte e sulle azioni.

Questo nuovo sistema è ormai un obbligo per i brand perché i consumatori chiedono alle aziende di prendere posizione e di fare la cosa giusta.

Il ruolo del brand activism all’interno della società

I brand hanno colmato il vuoto lasciato da ideologie e religioni organizzando le priorità della nostra vita. Per questo motivo il marketing classico incentrato sull’offerta dei prodotti e servizi è stato superato dal marketing focalizzato su valori e purpose del brand. Le persone non amano i brand e le aziende ma hanno un bisogno disperato di loro per colmare questo vuoto.

Quindi un’organizzazione di successo oggi, che sia economica, politica, sociale o religiosa, non è in grado di offrirci un prodotto che sia migliore, più funzionale, più conveniente di quello dei concorrenti. Deve essere in grado di offrirci una visione del mondo contingente. Non trova la risposta giusta per la nostra domanda: suggerisce la domanda giusta per la risposta che ha da offrirci. I brand possono contribuire a definire la nostra identità, a definire noi stessi, a definire il concetto e la visione del mondo nel quale vogliamo vivere.

Brand activism: regressivo o progressivo

Il brand activism si basa su due correnti, una progressiva e l’altra regressiva.

Con attivismo progressivo si fa riferimento a quelle azioni delle aziende che spingono al miglioramento di una condizione e che hanno fini che vanno al di là del profitto. Si prendono scelte che mirano al bene comune, attraverso piani strutturati di responsabilità sociale.

È quindi opportuno che i brand assumano una posizione chiara e trasparente riguardo a temi sociali e che riguardano il pianeta. In questo modo i consumatori possono sapere quale sia la posizione che l’azienda assume e scegliere di conseguenza se supportarle o meno.

In questo senso, anche in Spindox pensiamo che non esista un pianeta B. Per questo abbiamo lanciato la campagna GO!Green, «il primo passo per promuovere all’interno dell’azienda comportamenti sostenibili nel lavoro di tutti i giorni.». Nella nostra sezioneChi siamo‘, ti raccontiamo brevemente qual è la nostra posizione e il nostro impegno su questo fronte. In questo approfondimento di Paolo Costa, invece, puoi leggere i dettagli della nostra iniziativa, perché ci siamo chiesti come «1) integrare il paradigma della sostenibilità con l’innovazione digitale, che è il cuore del nostro business; 2) compiere scelte davvero sostenibili; 3) comunicare in modo responsabile le tappe del cammino intrapreso.»

L’attivismo regressivo, al contrario, riguarda le aziende che vantano benefici non del tutto veritieri sui prodotti o servizi, minimizzandone così l’impatto negativo. Spesso sono definite regressive le le aziende che hanno a che fare con la produzione di combustibili fossili e petrolio, le compagnie farmaceutiche quando inseguono il profitto rispetto alla ricerca e al miglioramento della società. Ma anche aziende che producono sigarette e bevande gassate, il gioco d’azzardo e l’industria pesante. Tuttavia si tratta di una schematizzazione a volte troppo rigida e sicuramente un po’ manichea.

Esempi di Brand Activism

Airbnb lancia una campagna nel 2017, andando contro le direttive di Trump. In occasione del Super Bowl, l’attesissima finale di campionato del football americano, Trump vieta l’ingresso negli Stati Uniti a tutte le persone che vengono da paesi considerati rischiosi per motivi terroristici. Airbnb decide di opporsi, offrendo ospitalità gratuita ai provenienti dai cosiddetti paesi a rischio. Compie quindi un attivismo di tipo politico, difendendo la sua missione che è quella di far sentire le persone a casa, ovunque esse siano.

Nike si rivolge a Colin Kaepernick, un giocatore di football americano, come volto della campagna per festeggiare i trent’anni dello slogan JustDoIt. Nel 2016 il giocatore, durante una partita, mentre viene celebrato l’inno, decide di inginocchiarsi come forma di protesta contro la violenza della polizia nei confronti della comunità afro-americana. Questa scelta, oltre a costargli la carriera, divide il paese. Grazie a questo attivismo, Nike ha registrato un aumento delle vendite del 31%, ottenendo indirettamente un’esposizione mediatica gratuita.

E infine, Patagonia, il brand più attivista di tutti. La missione dell’azienda consiste nell’utilizzare le risorse del business per implementare soluzioni che possano risolvere la crisi climatica. Il marchio, infatti, sovvenziona associazioni impegnate nella lotta al cambiamento climatico a livello globale. Per rendere ancora più chiara la sua posizione, Patagonia ha aggiunto sul sito una voce denominata “attivismo”.

Il brand activism è per tutti?

Le organizzazioni devono smettere di focalizzarsi sul prodotto, per cominciare a parlare la lingua del purpose, applicandola sul medio-lungo periodo. E questo è il vero modo per creare valore.

Le organizzazioni devono trasformare la loro missione in azione.

Devono, inoltre, smettere di competere all’interno di un mercato e provare a estendere la propria influenza su un territorio più ampio che è quello della società.

Il modello del brand activism si configura come un modello win-win, sia per il brand sia per la collettività. Può infatti contribuire sia al vantaggio competitivo del brand, in uno scenario in cui il brand compete all’interno della società stessa, sia al miglioramento della società, creando valore.

Non tutti i brand però sono pronti a intercettare occasioni etiche, culturali, politiche, sociali che possano diventare parte della comunicazione del brand stesso. Molti non sono ancora riusciti a fare il passaggio da marketing del prodotto al marketing del valore. Altri sono impreparati a portare all’interno dell’organizzazione qualcosa che viene dall’esterno, sia dal punto di vista dell’organizzazione sia da quello culturale.

Il brand activism non è per tutti

Il brand activism non è per tutti. Alcuni non ne hanno bisogno, non ne hanno le forze. Anche perché richiede investimenti di natura economica, di natura culturale e di trasformazione, oltre che di management. E non tutti sono in grado di sostenerli.

In Spindox, come sottolinea Costa nella sua già citata riflessione: «siamo consapevoli che il contributo di una singola impresa è modesto, ma crediamo che la somma di tante piccole azioni abbia un impatto enorme.» Poi prosegue: «in altri termini, avvertiamo la necessità di identificare un modello che sia sostenibile nei fatti, non solo a parole, compiendo di volta in volta le scelte più razionali. Vogliamo insomma distinguere la vera sostenibilità dalle mode, il pensiero critico dall’ondata emotiva. Dall’altro si tratta di definire il ruolo che la comunicazione deve esercitare nel percorso verso un modello di impresa sostenibile. Una comunicazione che si vorrebbe a sua volta responsabile, onesta e trasparente. […]» e allo stesso tempo ci si chiede: «È corretto proclamarsi free-plastic company, solo perché abbiamo eliminato bicchieri e bottiglie usa-e-getta? […] La tentazione di proclamare Spindox una plastic-free company è forte. Ma sarebbe corretto?».

Beatrice Mingazzini
Beatrice Mingazzini
Laureata in economia e management per arte, cultura e comunicazione, è specializzata in design e moda. Appassionata del viaggio on the road, sempre alla scoperta di qualcosa di nuovo, nel tempo libero le piace sperimentare tecniche di pittura.

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