L’agricoltura al giorno d’oggi non è sostenibile. Per limitare lo spreco di cibo e di acqua arrivano nuove tecnologie e nuovi sistemi basati sull’economia circolare.
La situazione attuale dell’agricoltura
È necessario cambiare il modo di coltivare e di consumare il cibo, perché quello attuale non è sostenibile. Cortilia, Too Good To Go e Wami sono esempi di aziende che lottano per un equo accesso alle risorse, contro lo spreco alimentare e per promuovere un modello di consumo sostenibile.
Abbiamo seguito l’evento “Coltivare il futuro”, che si è svolto durante il Verde e il Blu festival alla Biblioteca degli Alberi a Milano. Ospiti Giuseppe Tresso, Presidente Esecutivo BEF Biosystems, Francesca Pizza, responsabile di processo presso l’impianto di Depurazione di Milano Noseda, Livio Rossi, Responsabile Marketing & Sales Land Management, Dickson Despommier, Professore emerito di mocrobiologia e sanità pubblica e Eleonora Evi, Co-portavoce nazionale di Europa Verde. L’evento, condotto da Elena Comelli, ha permesso di riflettere su temi “caldi” in questo momento.
L’agricoltura così com’è adesso non è sostenibile. Un terzo di tutti gli alimenti coltivati viene buttato via. L’IPCC attribuisce al ciclo alimentare il 37% delle emissioni di gas serra globali. Quindi più di un terzo di tutte le emissioni di CO2 viene dal sistema agricolo e dal sistema alimentare. Sono parte della filiera agro-alimentare anche i trasporti ed il packaging dei consumi e i rifiuti.
Il sistema alimentare in Italia
Attualmente un prodotto alimentare su quattro consumato in Italia proviene dall’agricoltura estera. Nonostante questo deficit accumulatosi negli anni, un’analisi di Coldiretti su dati Istat mostra come la situazione negli ultimi anni stia cambiando. In questa ricerca viene evidenziato come il 2020 sia sta un anno di cambiamenti in cui le esportazioni sono cresciute dell’1,7% arrivando a totalizzare 46,1 miliardi di euro. Al contrario le importazioni si sono fermate a 43 miliardi.
«La riduzione degli scambi commerciali dovuta alla pandemia ha causato incertezze e accaparramenti di beni primari da parte dei singoli Stati. Questa situazione, come hanno evidenziato gli indici della FAO, ha provocato un rialzo dei prezzi dei prodotti alimentari come non si vedeva da sette anni. Anche l’Unione Europea non ha nascosto la propria preoccupazione e la conseguente necessità di elaborare una strategia per garantire l’autosufficienza alimentare alla propria popolazione» si legge sempre nell’analisi effettuata dal Coldiretti.
L’Italia ha un comparto agroalimentare molto forte e apprezzato anche all’estero, sia per la qualità sia per la sicurezza garantita dai suoi prodotti. Sul territorio nazionale sono presenti quasi 740mila imprese agricole, 70mila industrie alimentari, oltre 330mila realtà della ristorazione, 230mila punti vendita al dettaglio. È un comparto che genera 538 miliardi di valore lungo la filiera e garantisce 3,6 milioni di posti di lavoro.
Gli insetti, una nuova prospettiva per l’agricoltura
«Al giorno d’oggi uno dei punti più problematici dell’agricoltura è l’allevamento, responsabile del 15%-18% di tutte le emissioni globali. Quasi quanto i trasporti. Il 70% dei terreni coltivati serve per produrre il foraggio. Quindi sono i cibi per animali che occupano il terreno che serve per coltivare il cibo» racconta Giuseppe Tresso, presidente di BEF Biosystems.
BEF Biosistems è un’azienda nata nel 2016 con l’obiettivo di sviluppare nuove tecnologie per il nutrimento di insetti e la gestione dei residui organici. L’azienda infatti si occupa dell’allevamento di insetti nutriti con residui organici.
I rifiuti organici, scartati dai sistemi di trasformazione dei prodotti agroalimentari, sono sia un costo per le imprese che li devono smaltire, sia uno spreco di valore proteico. BEF Biosystems è stata creata proprio per dare valore e utilizzare in modo sostenibile questi sprechi. L’azienda infatti utilizza il cibo sprecato nel circuito alimentare per l’allevamento di insetti in ambito agricolo. BEF Biosystems contribuisce in questo maniera all’economia circolare della realtà agricola italiana.
«Con questi insetti si producono componenti di base per fare mangimi. La domanda prevalente è quella di componenti di base per animali domestici. Questo perché al momento la maggior parte delle proteine animali utilizzate per fare crocchette per cani ad esempio deriva dalla farina di pesce. Questa oltre ad essere un prodotto che ha grossi dubbi di sostenibilità ambientale per come viene prodotto, ha anche una serie di problematiche di qualità nutrizionali che un sistema di allevamento molto più controllato che è quello degli insetti può ovviare con dei prodotti superiori. Quindi gli insetti nutrono i cani ed i gatti. Ma in futuro potrebbero essere mangiati dagli essere umani, visto che ci sono aree dell’Asia in cui questo già accade» racconta Giuseppe Tresso.
Un nuovo settore sostenibile
Il settore dell’allevamento degli insetti è una nuova industria in espansione sia in Europa e che nel resto mondo. A differenza dei concorrenti, BEF Biosystems ha una proposta basata su macchinari di piccoli dimensioni, collegati in rete e gestibili da remoto. Tra 5 anni si prevedono più di 300 bugs farm sul territorio nazionale ed europeo.
La tecnologia cardine di BEF Biosystem è il bioconverter, lo strumento necessario per lo sviluppo delle larve. Si tratta di uno strumento efficiente dal punto di vista produttivo e del risparmio energetico. Infatti i motori utilizzati per la produzione di energia elettrica sono alimentati da biogas e dissipano una grande quantità di energia termica. BEF Biosystem utilizza l’energia termica per climatizzare e condizionare gli ambienti delle larve, ottimizzando così la gestione energetica del processo. Unendo l’utilizzo degli impianti fotovoltaici e riutilizzando l’energia termica fornita dagli impianti di biogas si hanno così moduli di allevamento ad impatto energetico pari a zero.
«Il riciclo adottato dall’azienda è di valore superiore rispetto a quelli che sono gli obiettivi dell’Unione Europea in materia dei rifiuti. Ma si riducono anche le emissioni di CO2 sul trattamento dei rifiuti» spiega Giuseppe Tresso.
L’impatto innovativo dell’azienda è sia tecnologico che sistemico. Questo avviene sia a livello dei costi di trasporto, sia ottimizzando l’utilizzo delle risorse da parte delle imprese agricole. Queste potranno così migliorare la loro profittabilità in maniera circolaro ed eco-friendly.
Il depuratore di Nosedo
Uno dei problemi fondamentali dell’agricoltura è il consumo dell’acqua. Il 70% dell’acqua utilizzata nel mondo è consumato in questo settore viene raccontato alla conferenza.
Il depuratore di Nosedo e quello di San Rocco, l’altro grande impianto di depurazione, restituiscono annualmente all’agricoltura un’enorme quantità di acque depurate. Nosedo, attivato nel 2003, depura 2,2 miliardi di metri cubi di acqua di scarico pari a 140/150 milioni di metri cubi l’anno. Si tratta prevalentemente di acque di scarico civili e urbane, visto che la città di Milano non ha più grandi apporti industriali.
«Le pratiche di riuso dei reflui depurati sono molto diffuse in ambito europeo, soprattutto negli stati della fascia mediterranea. Per questo motivo l’Unione Europea ha deciso di emanare un nuovo regolamento, il 741. In questo regolamento l’Europa ha stabilito, proprio in virtù di questa diffusione della pratica del riuso dei reflui depurati, dei requisiti minimi che tutti gli stati membri che mettono in atto questo tipo di pratica dovranno rispettare a garanzia degli utenti finali. Questi ultimi possono essere identificati sia negli agricoltori che nei consumatori che fruiscono dei prodotti» spiega Francesca Pizzi.
Il depuratore di Nosedo e l’impatto sull’economia circolare
Ma quindi qual è il contributo del depuratore di Nosedo all’economia circolare dell’acqua? Innanzitutto Nosedo è l’impianto più importante, a livello europeo, per il riutilizzo dell’acqua depurata a fini irrigui. Dopo essere stata depurate, le acque vengono consegnate al Consorzio della Roggia Vettabbia che a sua volta provvede alla ripartizione tra 90 aziende agricole. Grazie a questo sistema vengono irrigati 4.000 ettari di diverse piantagioni tra cui mais (50%), riso (15%) e altri cereali e foraggi (35%).
Grazie a questo depuratore non c’è quindi bisogno di andare ad approvvigionarsi dai corpi idrici naturali, ad intaccare le risorse idriche naturali e avendo a disposizione un flusso di acque che viene costantemente controllato, sulla cui garanzia loro si impegnano costantemente.
L’impianto di Nosedo contribuisce inoltra al recupero di calore dall’acqua di scarico attraverso la tecnologia delle pompe di calore. Grazie a questa tecnologia sono stati riscontrati risparmi energetici fino al 40% ed un grande riduzione di emissioni di CO2.
L’impianto permette inoltre il recupero di sostanze utilizzate come fertilizzanti per l’agricoltura. Infatti queste acque permettono la produzione di circa 50.000 tonnellate l’anno di fanghi contenenti elementi nutrienti tra cui carbonio e fosforo.
I satelliti che controllano agricoltura
I satelliti sono uno dei mezzi più utilizzati in agricoltura per effettuare il remote sensing o telerilevamento. Le immagini satellitari permettono infatti di monitorare le colture da remoto in modo preciso ed efficiente.
«Il satellite è uno strumento, non risolve i problemi dell’agricoltura. I satelliti civili sono nati co l’agricoltura. Alla fine degli anni 60’ gli USA e l’Unione Sovietica hanno cominciato a spiare rispettivamente le forniture e l’approvvigionamento di frumento. Hanno quindi cominciato ad introdurre nei satelliti la banda a infrarossi che è quella che evidenzia le variazioni e lo stato di salute della vegetazione. In questo modo è iniziata l’era del telerilevamento civile»
Attualmente, tutte le politiche agricole europee basano i loro regolamenti sul telerilevamento satellitare e su quello che questi sistemi riescono a controllare. Per questo tipo di politiche l’Italia riceve 7 miliardi di euro l’anno di contributi mentre l’Europa spende 40 miliardi per dare i contributi agli agricoltori.
Legato al telerilevamento è l’indice di vegetazione, fondamentale per lo smart farming. Una buona analisi e una corretta interpretazione dei dati satellitari ottimizzano gli interventi in campo e rendono sostenibile, dal punto di vista economico, un’attività di crop scouting strutturata. Questo indice fornisce informazioni importanti sullo stato di salute della pianta, su problematiche specifiche o sulla quantità di clorofilla.
Copernicus e l’agricoltura
Negli ultimi anni l’Europa si è dotata di un sistema di satelliti proprio, Copernicus. Esso raccoglie sia osservazioni satellitari sia informazioni da sistemi in situ come le stazioni di terra. Queste forniscono dati acquisiti da numerosi sensori posizionati al suolo, in mare o nell’atmosfera.
Copernicus fornisce dati totalmente gratuiti, in tempo quasi reale con copertura globale, di cui possono beneficiare tutti i cittadini europei, i responsabili politici, i ricercatori ma anche la comunità scientifica mondiale. Questi dati permettono di gestire in maniera sostenibile l’ambiente in cui viviamo.
Copernicus può essere applicato in diversi ambiti legati all’ambiente, alla salute degli individui e allo sviluppo delle città. L’agricoltura è sicuramente il settore che può beneficiare maggiormente di questo sistema. Copernicus infatti analizza l’utilizzo delle superfici agricole, le condizioni delle culture ed il loro rendimento. Ma analizza anche la mappatura stagionale delle aree coltivate, la gestione idrica, il monitoraggio della siccità e il controllo delle sovvenzioni. In questo modo è possibile effettuare controlli sui terreni globalmente senza doversi limitare a campioni o ad una percentuale ridotta di territori.
Con il Covid-19 la commissione Europea ha incentivato questo sistema satellitare al fine di evitare visite dirette sui terreni, fornendo dati satellitari e piattaforme di navigazione (GPS) per incrementare la capacità di dialogo e scambio digitale tra l’agricoltore, l’amministrazione, le associazioni ed i cittadini. Questi nuovi sistemi sono fondamentali nelle politiche dei piani di ripresa e resilienza.
«L’obiettivo è quello di riportare il territorio com’era prima, quindi ad un ambiente produttivo più sano per gli agricoltori ed i cittadini. È fondamentale che questi strumenti siano conosciuti non solo dai politici tecnici ma anche dai cittadini che devono pretendere che questi dati vengano utilizzati per avere una visione democratica e comprensiva di tutto l’ambiente » conclude Livio Rossi.
Vertical farming: due facce della medaglia
L’agricoltura verticale o vertical farming è una soluzione innovativa ed alternativa al modo di coltivare tradizionale elaborata da Dickson Despommier. Come il nome stesso lascia intuire, si tratta di una forma di coltivazione che si sviluppa su più livelli in verticale, riducendo lo spazio utilizzato per l’agricoltura ed evitando un eccessivo impoverimento del terreno. Questo tipo di agricoltura è praticato in edifici che cercano di simulare le condizioni climatiche adatte alla crescita delle piante e degli ortaggi.
Il vertical farming è un tipo di coltura detta idroponica. Questo significa che le piante vengono coltivate in soluzione di acqua e minerali, riducendo così i consumi idrici rispetto all’agricoltura normale del 90% e aumentando la produttività fino al 20%, come viene spiegato nell’articolo de Il Sole 24 Ore. A questi vantaggi si aggiunge la possibilità di coltivare durante tutto l’anno, senza pesticidi e fertilizzanti. Attualmente ci sono esempi di vertical farm, in Italia in primis ma anche in Danimarca, Paesi Bassi, Svizzera, Regno Unito, USA, Cina e Giappone.
In questa nuova forma di coltivazione si cerca di sfruttare appieno la luce solare. Poiché questa non è sufficiente si fa ricorso a lampade led. E questo ci porta al vero punto dolente di questa tecnologia: il consumo energetico enorme. Infatti le serre urbane, per funzionare, hanno bisogno di produrre ciò che il sole ci dà gratis, la luce.
Il ricorso a pannelli fotovoltaici potrebbe essere una soluzione alla grande quantità di energia necessaria? L’agronomo Bruce Bugbee, della Utah State University, ha calcolato che per l’elettricità necessaria a un ettaro di serre verticali, servirebbero 13 ettari di terreno coperti da pannelli solari. Non esattamente un gran guadagno, in termini di consumo di suolo.
Ma perché praticare la vertical farm?
I dati parlano chiaro. Secondo la FAO (Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura) nel 2050 la popolazione sarà pari a 10 miliardi. Le attuali risorse del pianeta non garantiscono una disponibilità di cibo sufficientemente elevato per così tante persone. Infatti guardando a questi numeri sarebbero necessari due pianeti per rispondere ai bisogni di tutta la popolazione mondiale, se non si cambiano certe abitudini.
«Se metà della popolazione mondiale potesse essere nutrita con prodotti che vengono coltivati nelle città in cui vivono, l’altra metà potrebbe tornare alla sue origini, adattando una strategia di riforestazione. Oggi ci sono tre trilioni di alberi, prima ce n’erano il doppio. Quanta anidride carbonica possono assorbire tutti questi alberi? Se potessimo ripiantare una grande porzione di questi alberi in maniera differente potremmo intervenire sul cambiamento climatico» racconta Despommier.
Ecco perché le coltivazioni fuori suolo del vertical farming si stanno sviluppando sempre di più. Recenti ricerche, effettuate a livello internazionale hanno evidenziato come il settore presenti tassi di crescita superiori al 20% medio annuo fino al 2026. Secondo le stime, inoltre, il mercato del vertical farming mondiale raggiungerà i 9,9 miliardi di dollari entro il 2025 (nel 2015 era pari a 1,2 miliardi di dollari).
Secondo Josef Nierling, Amministratore Delegato Porsche Consulting, «il vertical farming cambierà radicalmente anche le tradizionali relazioni tra cliente e fornitore lungo tutta la filiera agroalimentare. I produttori di macchinari agricoli – continua Nierling – dovranno reinventare il portfolio dei loro prodotti per poter sostenere gli agricoltori ‘verticali’, mentre questi ultimi diventano davvero produttori a chilometro zero, eliminando l’elevato numero di passaggi presenti lungo il canale distributivo e diventando essi stessi dei punti vendita ortofrutticoli».