L’emergenza oltre l’emergenza: ripensare la supply chain

da | Ott 28, 2021

Supply chain globalizzata: un modello finito?

Dopo quasi due anni a parlare, pensare, prevedere uno o più scenari post pandemici, ci troviamo oggi di fronte al migliore e al tempo stesso al peggiore dei casi possibili.

Il successo delle campagne vaccinali, soprattutto nei paesi industrializzati, ha consentito un relativo ritorno alla normalità con una conseguente esplosione dei consumi e un’impennata della curva della domanda di beni e servizi. Una situazione, per molti versi, simile a quella vissuta dalle generazioni postbelliche che, soprattutto nel nostro Paese, grazie ai soldi del Piano Marshall, ha dato vita negli anni Sessanta a quello che, non a caso, è stato definito un vero e proprio boom economico.
Anche in questo caso, l’arrivo sempre più imminente di fondi e finanziamenti extranazionali ha innescato una corsa agli investimenti  con una conseguente risalita dei mercati azionari e una ripresa economica insperata in così poco tempo.
Il contraltare di questa situazione tutto sommato positiva sembra essere l’entrata in crisi di un modello globale che mostra il fianco dopo oltre trent’anni di egemonia, rivelando oggi tutte le sue fragilità.
Come per una sorta di effetto farfalla, la messa in discussione di un anello della catena economica globale si riversa a cascata da un paese all’altro compromettendo l’intero processo.

In origine è stata l’indisponibilità di auto di lusso nel mercato inglese, poi il calo a sorpresa della produzione industriale in Cina e in poco tempo è stato chiaro a tutti che l’economia mondiale era a rischio collasso.
I problemi legati a una supply chain globalizzata devono far ripensare rapidamente a tre elementi chiave della catena: offerta, trasporti e manodopera.
Molti paesi sono stati colti di sorpresa dalla mancanza di riserve sufficienti di gas naturale e di petrolio, che in 12 mesi ha quasi raddoppiato il suo prezzo, arrivando a toccare la cifra record di circa 80 dollari al barile.
La scarsità di energia va dalla mancanza di carburante nel Regno Unito al razionamento dell’energia nelle città della Cina settentrionale che devono costringere le fabbriche della nazione manifatturiera numero uno al mondo a fermarsi proprio quando la domanda natalizia sta raggiungendo il picco in Occidente.
Quella conosciuta finora è una supply chain lunga e irta di ostacoli che dal sud-est asiatico arriva fino a noi. Le conseguenze della pandemia, con tutti i suoi ritardi e la scarsità di risorse, sta facendo schizzare in modo incontrollato costi e tempi di spedizione (che si ripercuotono anche sul consumatore finale), mostrando le crepe di un sistema produttivo che ha conosciuto il proprio momento d’oro negli ultimi trent’anni anni e che ora rivela tutta la sua inefficienza.
Abbiamo parlato degli effetti benefici della campagna vaccinale, ma alcuni grandi paesi manifatturieri come il Vietnam sono stati colpiti pesantemente dall’ondata di variante Delta e sono ancora alle prese con forti restrizioni sanitarie. C’è carenza di componenti come i chip per computer, la produzione automobilistica britannica è diminuita del 27% su base annua ad agosto a causa della mancanza di semiconduttori. Oltre ai limiti produttivi, ci sono i limiti logistici: l’indice di spedizione che misura il costo dei container, è aumentato del 291% rispetto a un anno fa. Su alcune rotte trafficate, come quella dalla Cina a Rotterdam, il costo della spedizione di un container è aumentato di sei volte nell’ultimo anno. A questo si unisce la mancanza di camionisti in molte parti d’Europa.

Tutto questo era prevedibile?

L’enorme bisogno di consumi represso dalla pandemia ha messo a dura prova il delicato equilibrio dell’ecosistema economico del mondo.
I consumatori ora sono particolarmente predisposti all’acquisto anche in considerazione degli incentivi governativi e in alcuni casi della presenza di maggiori risparmi dovuti ai due anni di stop che hanno represso la domanda. 
Le fragilità emerse dalla crisi di una supply chain globalizzata deve far riflettere su un cambio di paradigma che potrebbe essere accompagnato da un riequilibrio dell’economia globale in concomitanza dell’esigenza di molti paesi di accorciare le catene di approvvigionamento e diventare più autosufficienti attraverso politiche più autarchiche, che promuovono l’indipendenza dalle importazioni. 
Numerosi esperti e imprenditori ritengono che molte aziende potrebbero cogliere questa occasione per spostare la produzione dalla Cina, dove si sta esaurendo l’offerta di manodopera a basso costo, e avvicinarla in nazioni più contigue come Serbia, Croazia, Turchia, Tunisia ed Egitto. Moltissimi sono i brand che hanno fatto dell’Asia il cuore della propria produzione manifatturiera su larga scala a costi contenuti, ma la condizione attuale fatta di magazzini semivuoti, ritardi nelle consegne e scarsità di materie prime sta facendo ripensare a questo sistema.
Grandi aziende stanno rivedendo le loro supply chain per beni di prima necessità con un occhio attento sia ai temi della sicurezza che ai costi, iniziando a parlare di reshoring perché, se prima le produzioni all’estero erano economicamente convenienti, oggi l’esternalizzazione ha perso molti dei suoi vantaggi.
Il fenomeno dell’offshoring va corretto, bisogna prevenire situazioni critiche puntando sulla produzione domestica, quantomeno di prodotti indispensabili per la sicurezza nazionale, come medicinali e fonti di energia. Insomma, nell’era del post-covid, una supply chain più breve e controllata potrebbe diventare non solo una necessità, ma anche un’opportunità.

L’alba del nuovo mondo?

A detta degli analisti, il cambiamento delle supply chain è destinato a durare perché la pandemia, con il suo carattere di eccezionalità ha dimostrato che più le catene di approvvigionamento sono lunghe e globali, più i rischi di colli di bottiglia aumentano. La rete globale delle supply chain aveva già da tempo iniziato a manifestare le sue falle, ma la pandemia ha accelerato questo processo spingendo le aziende a ricorrere al nearshore outsourcing.
A queste motivazioni di tipo economico e pratico, si aggiunge la dimensione etica da cui ogni modello di business oggi non può prescindere. La crisi climatica e la responsabilità sociale impongono un cambiamento. Anche prima dell’emergenza covid il dumping ambientale e sociale era oggetto di critiche, non vedendo di buon occhio quelle aziende che non hanno messo in sicurezza la salvaguardia dei lavoratori e la tutela dell’ambiente. Tanto più sono state fortemente criticate quelle multinazionali che con l’aumento del costo del lavoro, in seguito all’introduzione di regole adeguate agli standard internazionali, hanno spostato la propria produzione verso economie in cui la sostenibilità sociale ed ambientale al momento è meno all’ordine del giorno. Un altro aspetto interessante di cui tenere conto è l’accelerazione di processi di economia circolare come conseguenza positiva della carenza di prodotti: una pratica ambientalmente virtuosa, soprattutto perchè consente di superare i colli di bottiglia in molti settori per la crisi della supply chain.
Si può dunque dire che questa crisi ha avuto l’effetto positivo di favorire una nuova fase di competizione tra le economie in un contesto positivo per la sostenibilità e l’innovazione, nella speranza che questi cambiamenti si consolidino come background strutturale dei cicli di produzione e consumo.

Ublique global leader nella continuous intelligence

In questo contesto di grande incertezza, in cui l’unica sicurezza sembra essere il cambiamento, tecnologie in grado di raccogliere ed elaborare grandi quantità di dati per creare scenari di simulazione e previsione in tempo reale saranno di fondamentale importanza per i decision makers.
Ublique, la piattaforma di supporto alle decisioni di Spindox, nasce e si consolida per affrontare sfide come questa. Anche Gartner ha consacrato la portata innovativa di Ublique inserendola tra le migliori dieci tecnologie di Continuous intelligence al mondo.

Giada Fioravanti
Giada Fioravanti
Quando mi sono iscritta a FB ho usato questa citazione della Dolce Vita per descrivermi: «Sono troppo serio
 
per essere un dilettante, ma non abbastanza per diventare un professionista». Poi mi sono laureata, ho preso 

un dottorato, ho iniziato a lavorare nell’ambito della comunicazione e del marketing e ho capito che si poteva 

essere dei professionisti. L'importante era non prendersi troppo sul serio.

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