Riflessioni sul rapporto fra vita autentica ed esperienza tecnologica, a margine di un libro di Vanni Codeluppi. Contro ogni tentazione deterministica, occorre ribadire che «la tecnologia è un’attività molto umana».
Nel blog di Spindox abbiamo parlato del periglioso conflitto fra vita autentica ed esperienza tecnologica.
Ma che cos’è – mi domando – la vita autentica? Quella cui alludeva Martin Heidegger,cioè l’essere «per il proprio poter essere», liberi di scegliere e di condurre una vita senza i condizionamenti degli altri? Sappiamo che per Heidegger, dal momento in cui viene gettato in questo mondo, «ognuno è gli altri e nessuno è sé stesso». Per cui l’unica autenticità possibile è nella morte.
Oppure la vita autentica è quella di cui ci parla il teologo pop Vito Mancuso, in un libro di qualche anno fa intitolato appunto La vita autentica (Cortina, Milano, 2010). Per Mancuso la vita autentica è la vita proba, condotta con l’intenzione di fare del bene, di essere giusti e di aprirsi agli altri. Quindi esattamente il contrario del programma di Heidegger: è un essere-per-gli-altri, non un heideggeriano essere-per-sé-stessi.
Insomma: è difficile stabilire se ciò che siamo – o, per lo meno, ciò che crediamo di essere – sia autentico. Per Alessandra Bossi l’autenticità passa oggi attraverso un rapporto sano, corretto, equilibrato fra l’esperienza del sé e la condizione tecnologica in cui tutti noi ci troviamo immersi. Si tratta dunque di trovare questo punto di equilibrio e di recuperare la nostra «umanità».
Realtà al tramonto?
Stimolato dal suo intervento e dalla lettura del recente libro di Vanni Codeluppi Il tramonto della realtà. Come i media stanno trasformando le nostre vite (Carocci, Roma, 2018), che affronta temi analoghi in una prospettiva massmediologica, provo qui a suggerire un punto di vista diverso. Ovviamente la nostra Alessandra si è limitata a una riflessione vacanziera, con quella giusta dose di leggerezza che ogni tanto è richiesta anche in questo blog. Il libro di Codeluppi, invece, è la sintesi divulgativa del lavoro di uno studioso che si occupa di media, cultura di massa e consumi da molti anni. Sarebbe dunque ingeneroso per entrambi metterli sullo stesso piano. Eppure…
Quando parliamo di nuove tecnologie, quasi sempre abbiamo in mente le nuove tecnologie dell’informazionee della comunicazione (NICT). È il caso di Alessandra, che si riferisce all’esperienza dei social media, alla virtualizzazione delle relazioni online, alla nostra condizione di individui costantemente connessi, alla velocità crescente con cui ci viene chiesto di reagire a ogni sollecitazione della Rete. Tutto ciò – osserva giustamente Alessandra – rischia di generare ansia, dissociazione, dipendenza.
Ossessioni social
Sorprendentemente, però, si trascurano gli ambiti di applicazione delle nuove tecnologie che non hanno a che fare con la comunicazione. Penso agli sviluppi della genomica (biotech), all’impiego sempre più spinto dei robot nell’industria manifatturiera (industry 4.0), alla digitalizzazione della finanza (fintech) o al ricorso all’intelligenza artificiale per la soluzione delle dispute legali (legaltech). Tutte cose che a me preoccupano non meno di Facebook e delle ossessioni social.
A parte ciò, mi sembra che il nucleo del ragionamento di Alessandra si presti a qualche critica. L’idea, non diversa da quella esposta da Vanni Codeluppi, è che le nuove tecnologie della comunicazione ci abbiano conquistato grazie alla loro capacità di «confezionare un mondo più piacevole e convincente di quello vero» (p. 9; da qui in avanti i numeri di pagina sono riferiti al libro di Codeluppi). La trasformazione delle nostre vite rischia pertanto di coincidere con la rinuncia alla realtà, cui viene preferito un simulacro virtuale.
In cerca di un soggetto critico
È implicita l’idea, mi sembra, che a una simile deriva occorra resistere. Senza prendere posizione più di tanto, Codeluppi illustra nel suo Epilogo (pp. 109-114) alcune strategie per confrontarsi alla pari con la cultura mediatica. E fa piacere trovare il riferimento a due filosofi come Walter Benjamin e Bernard Stiegler, i quali – da prospettive molto diverse – indicano interessanti strategie per l’elaborazione di un nuovo modello di soggetto critico.
Ma torniamo alla domanda: siamo davvero al cospetto di una divaricazione fra vita autentica e media? La tecnologia ci sta allontanando dalla realtà?
Secondo Codeluppi i nuovi media portano alle estreme conseguenze un processo avviato con la modernità, ovvero con la possibilità di rivolgere uno sguardo analitico sul mondo grazie all’utilizzo della tecnologia (pensiamo al telescopio di Galileo). La divaricazione fra realtà e immagine della realtà si è compiuta: l’immagine esiste a prescindere dalla realtà, si fa simulacro. Con l’aggravante che gli individui mediatizzati della contemporaneità tendono narcisisticamente a riflettersi nell’immagine e a immergersi in essa. Anziché essere spettatori, vogliono entrare nello spettacolo. Quindi l’immagine non è premiata per la sua veridicità, ma per l’intensità delle sensazioni che procura, per il suo potere di fascinazione narcotizzante.
Infine, Codeluppi rileva la «fusione progressiva tra il corpo umano e i media» (p. 49), che implica «una forma di sensorialità dove il coinvolgimento mentale è minimo […] Il dito diviene un’entità che forma un tutt’uno con lo strumento tecnologico per la comunicazione e opera in gran parte attraverso automatismi che sono imposti dallo strumento stesso e indipendenti dalla soggettività umana» (p. 53).
Tutta colpa del dispositivo
L’esito di tutto ciò, insomma, sembra la «desoggettivizzazione» del soggetto per opera dei dispositivi mediali già preconizzata da Giorgio Agamben (Che cos’è un dispositivo?, Nottetempo, Roma, 2006). Nel ragionamento di Codeluppi vi sono tuttavia alcuni passaggi che avrebbero bisogno di un maggiore supporto empirico.
Il primo passaggio riguarda l’idea che i nuovi media stiano modificando il nostro apparato cognitivo tradizionale, agendo in modo deterministico e a prescindere dai contenuti veicolati. Qui c’è, a mio avviso, un parziale fraintendimento del famoso monito di Marshall McLuhan, secondo il quale «il medium è il messaggio». Si sottovalutano, in particolare, due aspetti. Da un lato c’è la capacità dei soggetti di elaborare strategie di utilizzo dei media non previste. Tale capacità era già suggerita appunto da Benjamin ed è stata poi evidenziata dalle ricerche della Scuola di Birmingham, dei mediattivisti e di Henry Jenkins. Dall’altro c’è la neuroplasticità del sistema cerebrale, ossia la tendenza a modificare la sua struttura nel corso del tempo in risposta alle esperienze. Non è detto dunque che eventuali modifiche al funzionamento del nostro cervello, indotte dall’uso dei media, siano irreversibili.
L’equivoco della postmedialità
Un altro passaggio che non condivido è quello in cui Codeluppi rifiuta l’idea di postmedialità intesa come «scomparsa dei media così come li conoscevamo» (p. 11). Anche in questo caso c’è probabilmente un equivoco. Per «cultura postmediale» occorre intendere una cultura che dà i cosiddetti nuovi media per scontati e che è fortemente condizionata – negli atteggiamenti, nelle motivazioni e nelle aspettative – dalle tecnologie digitali, o tecnologie della connessione. La postmedialità non sancisce la fine dei media, ma la saturazione della società da parte dei media stessi (Ruggero Eugeni, La condizione postmediale. Media, linguaggi e narrazioni, Editrice La Scuola, Brescia, 2015).
Non è neanche vero, a mio avviso, che «le persone [siano] propense a credere acriticamente a tutto quello che trovano nel web» (p. 11). Diversi rapporti – World Economic Forum, Gallup, Edelman – mettono in luce un progressivo calo di fiducia nei confronti di tutti i media, compresi i social network. In particolare, la crisi di credibilità di Facebook nell’ultimo anno è sotto gli occhi di tutti.
Infine, l’idea che gli adolescenti costituiscano il segmento di popolazione più vulnerabile alla fascinazione narcotizzante dei media, scontata per Codeluppi, è secondo me tutta da dimostrare. Fino a prova contraria, i veri schiavi di Facebook sono i 30-50enni.
Un rapporto simbiotico
La questione, per me, è sempre la stessa: possiamo immaginare che le tecnologie ci usino a loro piacimento, a prescindere dall’uso che noi facciamo di esse? Io non credo. «La tecnologia –ammoniva Melvin Kranzberg – è un’attività molto umana» (Technology and History: Kranzberg’s Laws in Technology and Culture).
Sono convinto che il nostro destino sia di vivere in simbiosi con la tecnologia. Di più: «la tecnologia è il modo naturale dell’umanità di essere al mondo» (Cosimo Accoto, Il mondo dato, Egea, Milano, 1017). Ci portiamo dunque appresso la tecnologia come la chiocciola fa con il guscio, con tutto il suo carico di inquietudine, alienazione e fascino. E il rapporto con la tecnologia non può che avere un carattere sentimentale. Esso riguarda più il cuore che la ragione.
D’altra parte, la visione deterministica è ingenua, nel momento in cui postula rapporti meccanici di causa-effetto tra invenzioni tecnologiche e cambiamento sociale. Tendo a prediligere l’idea che fra tecnologia e cultura visia un rapporto di co-dipendenza e influenzamento reciproco. L’innovazione tecnologica è segno e sintomo dimutamenti di altro genere, di natura sociale.
È giusto domandarci che cosa i media facciano alle persone. Tuttavia, non è meno importante comprendere che cosa le persone facciano con i media. E che cosa potrebbero fare di meglio, impegnandosi.