I longform vanno alla grande. Torniamo dunque a parlare di SEO e della lunghezza dei testi che pubblichiamo nei nostri post. Un’analisi del NiemanLab ci aiuta a capire ciò che gli utenti cercano e ciò che gli algoritmi premiano.
Si fa un gran parlare di longform, cioè degli articoli o post caratterizzati da una relativa lunghezza. La definizione corrente di longform è quella di un testo lungo almeno 1000 parole. Quello che state leggendo, per esempio, è un post di circa 1500 parole: dunque un longform.
Sulla scorta del successo riscosso in molte testate online (Guardian, Atlantic, Longform.com, New York Review of Books, New York Times, Slate, Politico.com ecc.) cerchiamo qui di capire in che misura questo formato possa funzionare anche in un contesto diverso da quello del grande giornalismo anglosassone di inchiesta e approfondimento.
La giusta lunghezza
Qual è la lunghezza giusta di un testo destinato alla pubblicazione nel Web? Formulata in questi termini, la domanda ha poco senso. Un testo che funziona è un testo che rappresenta la realtà in modo perspicuo e che mobilita il suo lettore, indipendentemente dalla sua lunghezza. Così scriveva Italo Calvino nel 1985, preparando la lezione americana dedicata alla Rapidità (ora in Saggi. 1945-1985, a cura di Mario Barenghi, Milano, Mondadori, 1995, pp. 670-671):
[…] la riuscita sta nella felicità dell’espressione verbale, che in qualche caso potrà realizzarsi per folgorazione improvvisa, ma che di regola vuol dire una paziente ricerca del mot juste, della frase in cui ogni parola è insostituibile, dell’accostamento di suoni e di concetti più efficace e denso di significato. Sono convinto che scrivere prosa non dovrebbe essere diverso dallo scrivere poesia: in entrambi i casi è ricerca d’un’espressione necessaria, unica, densa, concisa, memorabile.
Concisione, dunque. Ovvero rapidità dello stile e del pensiero. Il che non vuol dire necessariamente scrittura breve. Al contrario, è sempre Calvino a ricordarci che la rapidità s’accorda «con una scrittura pronta alle divagazioni, a saltare da un argomento all’altro, a perdere il filo cento volte e a ritrovarlo dopo cento giravolte» (ivi, pp. 668-669)
Dare il contributo informativo richiesto
Il crescente successo del longform sembra confermare che nel Web si può attrarre audience con contenuti di notevole lunghezza. Non solo: in determinate circostanze i testi lunghi sono efficaci anche se consumati in modalità mobile, cioè con dispositivi di lettura apparentemente più adatti alla polverizzazione dell’esperienza.
Il punto non è tanto la lunghezza, ma la qualità. In questo senso è vero che in molti casi la lunghezza di un contenuto può essere considerata lo specchio fedele della sua qualità, perché vuol dire approfondimento, ricchezza di materiali, completezza. E il Web è pieno di utenti che cercano proprio questo: lettori che non si accontentano di poche righe.
Lunghi, non prolissi
È altresì vero che la lunghezza non è un valore in sé e non garantisce qualità. In molti casi, semmai, la lunghezza tradisce prolissità stilistica, oscurità dell’espressione e ridondanza argomentativa. La prosopopea è pericolosa, perché rende più difficile comprendere ciò che vogliamo dire.
Condensare in poche parole il nostro pensiero, viceversa, è un esercizio di chiarezza. È il presupposto etico della comunicazione. Scherzandoci sopra in una sua memorabile bustina, inclusa per Bompiani in volume (Milano, 2000), Umberto Eco ebbe a dire:
Non essere ridondante; non ripetere due volte la stessa cosa; ripetere è superfluo (per ridondanza s’intende la spiegazione inutile di qualcosa che il lettore ha già capito).
Occorre essere lunghi quanto serve per dare il contributo informativo richiesto, insomma. Nulla di nuovo rispetto al principio di cooperazione formalizzato da Paul Grice quasi cinquant’anni fa (Logic and Convesation, in Syntax and Semantics, New York, 1975)
Questione di ranking
Comunque, l’idea di un Web in cui solo i contenuti brevi hanno diritto di cittadinanza è fuorviante. Anzi, l’algoritmo di posizionamento di Google Search sembra prediligere i documenti di una certa lunghezza. I testi troppo corti ottengono un punteggio relativamente più basso, mentre tendono a essere premiati i testi di maggiore lunghezza.
Sull’importanza di questo fattore di ranking le opinioni divergono: c’è chi ipotizza che i risultati migliori si ottengano con testi di lunghezza compresa fra le 2000 e le 2500 parole, ma la maggior parte degli esperti suggerisce una lunghezza di 1500-1600 parole.
Una ricerca di SEMRush del 2017 mostra che, prendendo a campione 600mila ricerche online diverse, effettuate con altrettante parole-chiave, i contenuti che si collocano fra il primo e il terzo posto nella pagina dei risultati hanno una lunghezza media di 750 parole, mentre quelli in ventesima posizione arrivano solo a 500 parole.
Test analoghi condotti da SerpIQ ci dicono che i risultati posizionati al primo posto in un campione di 20mila ricerche hanno una lunghezza media di quasi 2500 parole. I longform hanno inoltre maggiori probabilità di ottenere backlink, i quali costituiscono notoriamente il più importante fattore di ranking.
Un po’ per il lettore, un po’ per l’algoritmo
È importante capire che la lunghezza del testo è un parametro con una duplice valenza: da un lato influenza il comportamento del lettore, attirandolo o respingendolo a seconda dei casi; dall’altro agisce sull’algoritmo di calcolo che determina la maggiore o minore visibilità del nostro contenuto sia nelle SERP dei motori di ricerca sia nei feed dei principali social network.
Quindi, per fare un esempio, quando diciamo che su Facebook funzionano meglio i contenuti corti, possiamo intendere due cose distinte ma collegate. Da un lato vogliamo dire che gli utenti di Facebook preferiscono i contenuti corti a quelli lunghi. Dall’altro ci riferiamo al fatto che Edgerank, o come si chiama oggi l’algoritmo di Zuckerberg, massimizza la portata organica dei contenuti più corti.
Le due cose, come dicevamo, sono collegate. Infatti, aumentare la portata organica di un contenuto contribuisce a incrementare il numero di reazioni, condivisioni e commenti, ossia di fattori che – a loro volta – contribuiscono a rendere quel contenuto più visibile.
LinkedIn premia i lunghi
Ma come funzionano le cose, quando dobbiamo valutare i social network in termini di referral, ossia per la loro capacità di generare traffico verso il nostro sito web o la nostra applicazione? Una ricerca condotta da Kelsey Arendt per il NiemanLab con la collaborazione di Parse.ly ci fornisce qualche informazione utile a riguardo. L’analisi è riferita a diversi milioni di contenuti condivisi sulle principali piattaforme online nel periodo compreso fra ottobre 2018 e gennaio 2019.
Ebbene, le piattaforme che premiano i contenuti più lunghi sono LinkedIn, Drudge Report e Reddit (quest’ultimo, in particolare, nella sua versione desktop). Vale quanto detto prima: le probabilità che un contenuto venga condiviso sono direttamente proporzionali all’interesse suscitato da quel contenuto dal pubblico raggiunto, ma dipendono anche dal modo in cui l’algoritmo guida la visibilità del contenuto stesso.
Nel caso di LinkedIn i contenuti condivisi dagli utenti sono, nel 75% dei casi, di lunghezza superiore alle 600 parole. Addirittura, nel 36% dei casi superano le 1000 parole di lunghezza: veri e propri longform.
La brevità è di Facebook e Instagram
Contenuti più brevi hanno invece maggiori probabilità di essere condivisi su Facebook, Instagram e Pinterest. Le ultime due, com’è noto, sono piattaforme focalizzate sulla condivisione di immagini. Il fatto che i loro utenti prediligano contenuti relativamente brevi non deve dunque stupire.
Il caso di Facebook è più complesso. Forse la preferenza per contenuti in proporzione più corti, rispetto a LinkedIn, Reddit e Drudge Report, si spiega anche considerando il comportamento prevalente dell’utente di Facebook. Questo, secondo studi menzionati dal Bloomberg, è caratterizzato da un tempo complessivo trascorso sulla piattaforma molto alto (45 minuti al giorno), ma da una durata brevissima di ogni singola sessione (circa 90 secondi). Il che costituisce fra l’altro un grosso problema per ogni tentativo di valorizzare Facebook come piattaforma di video sharing.
Non solo mobile
Nel 2018 il divario fra consumo mobile e consumo desktop è cresciuto. Secondo Parse.ly nel corso dell’ultimo anno il traffico mobile è aumentato del 25%, mentre quello desktop è calato del 17%. Questo dato non deve portarci a trarre frettolose conclusioni. Non è vero, tanto per cominciare, che il consumo in modalità desktop sia scomparso. D’altra parte, è sbagliata l’idea che un longform possa essere consumato solo in modalità desktop.
Una ricerca del 2016 del Pew Research Center conferma che i longform generano su smartphone un numero medio di interazioni complete non inferiore ai contenuti brevi e trattengono il lettore per un tempo più che doppio.
Traffico diretto e contenuti correlati
Diciamo semmai che il desktop ha la sua specializzazione. Intanto copre quote di traffico molto più alte quando si tratta di referral diretti e interni. Detto in altri termini, le visite dirette alla home page di un sito e quelle generate da e-mail o applicazioni di messaggistica istantanea hanno in proporzione più probabilità di essere consumate in modalità desktop.
Anche i contenuti correlati – quelli cioè spinti da messaggi come «forse ti potrebbe interessare anche…» o «leggi il prossimo» – funzionano probabilmente meglio quando l’utente ha uno schermo di grosse dimensioni. Inoltre, il traffico desktop si orienta leggermente più verso i contenuti aziendali e i longform. E piattaforme come LinkedIn totalizzano una percentuale più alta di lettori in entrambe le categorie.