Il vintage spopola nel mondo della moda e il pianeta ringrazia. Il consumo di vestiti usati non solo è più economico e originale dello shopping tradizionale, ma anche più ecosostenibile. Spariscono i fattori di produzione e smaltimento, fortemente impattanti sull’ambiente.
Perchè il vintage?
Ublique© ama il fashion, ma ha a cuore la questione ambientale. Non c’è contraddizione. Anzi: Ublique© vuol dire ottimizzazione, e ottimizzare significa consumare meno, riducendo l’impatto dei processi industriali sul pianeta, Sappiamo che si tratta di un tema centrale, nel comparto della moda.
Non a caso ce ne occupiamo spesso. La decision intelligence può supportare nuove strategie per la gestione del cambiamento nel comparto fashion, in particolare grazie all’impiego di più accurate tecniche predittive. Tanto più nel contesto dell’attuale scenario post-pandemico.
Un contributo alla riduzione dell’impatto ambientale del settore dell’abbigliamento potrebbe venire da una nuova tendenza: la passione per l’usato vintage. Grazie alle iniziative che si sono sviluppate negli ultimi mesi il mercato dell’usato online ha avuto una crescita del 69% tra il 2019 e il 2021.
Depop, Vinted, Vestiaire Collective, sono solo alcuni esempi di come il mondo vintage stia spopolando e di come i consumatori ne usufruiscano in misura crescente sia per liberarsi dei vestiti che non utilizzano più sia per acquistarne di nuovi, creando una cultura della circolarità. A beneficiare maggiormente di questa tendenza sono le start up, che per prime hanno avuto la capacità di analizzare correttamente il target e il mercato del mondo vintage.
Vintage è meglio?
I vantaggi sono innumerevoli: l’impatto ambientale viene drasticamente ridotto, grazie al minore utilizzo di materiali inquinanti, così come il ricorso allo sfruttamento di lavoratori sottopagati.
Ritorna in auge, nella mente degli acquirenti, il concetto che vigeva anni fa: un abbigliamento fatto per durare nel tempo e che fosse quindi di qualità tale da essere utilizzabile numerose volte senza logorarsi.
Ma nasce anche il piacere della ricerca e della conquista, la soddisfazione di accaparrarsi il pezzo migliore, più originale o economico e di creare uno stile più creativo e personale. Allo stesso tempo si sviluppa il concetto di moda circolare che permette di liberarsi di quei vestiti che giacevano da anni inutilizzati nell’armadio e che ora riacquistano un valore per qualcun altro.
Per aiutare il pianeta basta un clic o un tap. Le app e i siti sono intuitivi e facili da usare per tutti consentendo un veloce scambio di abiti in giro per il mondo senza il rischio di sovrapproduzione e di conseguente smaltimento nocivo.
Già prima del Covid si manifestava un certo interesse per il vintage e per i negozi rental-only. Famoso, per esempio, il caso di NY Vintage, una boutique aperta a Manhattan nel 2002, diventata meta di celebrità come Beyoncé, Rihanna, Lady Gaga, Madonna, Scarlett Johanssen, Kate Upton, Vanessa Hudgens e Charlize Theron.
Online fashion rental: un mondo di startup
Questa tendenza si sta sempre più radicando nella mentalità degli acquirenti tanto che stanno nascendo magazine specializzati nel vintage. È il caso di Display Copy che tratta solo di questo tema e veste le sue modelle con vestiti second hand mostrando la potenzialità e lo stile del vintage.
Un ulteriore fenomeno che vale la pena evidenziare è quello dei vestiti in affitto, o fashion renting, che consente allo stesso modo del vintage di non acquistare un vestito solo per un’occasione lasciandolo poi inutilizzato, ma di evitare gli sprechi “prendendolo in prestito” per qualche giorno. Siti specializzati in questo tipo di servizio sono Drexcode e Dressyoucan. Avevamo cominciato a parlarne due anni fa sul blog di Spindox, con un post sul fashion sharing.
Una lista aggiornata delle startup che operano nel comparto dell’online fashion rental è disponibile sul sito di Tracxn. Uno dei casi di maggiore successo è quello di Rent the Runway, fondata nel 2009, che oggi ha un valore stimato di 800 milioni di dollari. Per noi di Ublique© è di particolare interesse constatare che il successo di Rent the Runway è strettamente legato alla qualità e all’efficienza dei suoi processi logistici. Ovviamente ci sono anche le storie di insuccesso. Per esempio, lo scorso anno ha chiuso i battenti Armarium, startup di New York fondata nel 2016.
Svantaggi del vintage
Tuttavia, nonostante gli enormi vantaggi che porta al pianeta, questo approccio mette in crisi l’occupazione nell’intera filiera tessile. Per questo motivo l’eco-designer non si pone più unicamente l’obiettivo di ottenere prodotti vendibili, che dopo l’uso si trasformeranno in rifiuti o capi per il mercato dell’usato, ma penserà da subito anche al prodotto nella sua fase post-vendita, prevedendone nuovi destini od utilizzi. La logica, insomma, è quella di un sistema “cradle to cradle” (dalla culla alla culla), che si contrappone al modello di economia lineare “cradle to grave”(dalla culla alla tomba).
Lo sviluppo di una nuova economia circolare
Interessanti iniziative in una logica di economia circolare, che già prevede una fase post-vendita, stanno sorgendo in tutti i settori. Significativo, per esempio, il recente progetto del gruppo Prenatal, marchio di proprietà dell’azienda italiana Artsana Group, con il suo programma “Forever young”, che prevede già al momento dell’acquisto di sistemi modulari (trio composto da carrozzina-seggiolino auto-passeggino), studiati per durare nel tempo ma spesso utilizzati per brevi periodi, il loro ritiro, dal 12esimo al 18esimo mese di utilizzo, in cambio di una gift card corrispondente a un valore tra il 50% e il 30% del bene restituito (a seconda del brand e delle condizioni), oppure il riciclo delle singole parti per la rinascita in forma diversa di nuovi prodotti.
Un’altra interessante iniziativa è quella di Cecilia Cottafani che con il suo progetto Maert.ens, ha raggruppato tutti i negozi vintage e di seconda mano presenti sul territorio milanese visitati e recensiti di persona. L’obiettivo di questo progetto è offrire all’utente una vasta scelta di negozi che restituiscono vita a beni belli, di qualità e in buono stato, uscendo dai meccanismi compulsivi della grande distribuzione.
Uno dei valori aggiunti del vintage, oltre a buona qualità e bassi prezzi, è la possibilità di trovare capi che soddisfino i propri desideri, risaltando il gusto personale e le peculiarità degli individui i quali, a furia di abbigliarsi con capi non sostenibili della grande produzione, sembrano fatti con lo stampino.
Fine del fast fashion? Non proprio
Queste nuove tendenze – vintage, renting fashion – possono essere viste come una minaccia mortale al modello del fast fashion. Eppure c’è anche un’altra chiave di lettura. Perché è lo stesso modello del fast fashion ad adattarsi al nuovo scenario post-covid. Uno scenario che esige non solo un controllo perfetto della filiera logistica e l’ottimizzazione di tutti i processi, ma anche uno stile più sobrio e responsabile. Ecco dunque che importanti brand come H&M e Zara sono impegnati a integrare nel proprio business una visione più attenta nei confronti dell’ambiente. Sembra essere l’ora di un nuovo paradigma, sintetizzabile nella formula “less is more”. In pratica si tratta di ridurre la complessità dell’assortimento, cercando un perfetto allineamento fra i prodotti selezionati e le aspettative dei consumatori. Questo significa anche riorientare la strategia di assortimento, focalizzandola sulla domanda e riducendone i livelli. Senza contare che anche i big del fast fashion potrebbero entrare nel mercato dell’usato. Un primo tentativo è stato fatto proprio da H&M nel 2019. Insomma è lecito domandarsi se il fast fashion non sia destinato a cambiare pelle e a diventare smart fashion.