Facebook perde smalto (e utenti). Normale crisi di crescita o inizio del declino?
Sicuri che Facebook sia la piattaforma di digital marketing più efficace per ogni business, brand, personaggio politico e celebrità? La domanda può sembrare peregrina, considerando che Facebook è il social network più diffuso a livello globale: “2,3 miliardi di utenti mensili, di cui 1,5 connessi almeno una volta al giorno”. Eppure il dubbio si insinua in misura crescente fra strateghi e responsabili della comunicazione di piccole e grandi organizzazioni.
La sensazione è che la luna di miele fra Facebook e brand stia finendo. Complici due fenomeni, fra loro collegati. Da un lato i 2,3 miliardi di utenti mostrano segni di stanchezza, se non di delusione. L’engagement ristagna, la disponibilità a rendere utilizzabili i propri dati personali diminuisce, le critiche da parte dell’opinione pubblica per gli atteggiamenti poco trasparenti e arroganti del social network si moltiplicano. Senza contare il problema del ricambio generazionale, visto che i giovanissimi sembrano preferire piattaforme diverse da Facebook. Dall’altro lato c’è una questione di metriche, ossia di misurazione del ritorno sull’investimento. Quanto costano, effettivamente, contatti e conversioni su Facebook? Ma soprattutto: possiamo fidarci dei metodi di calcolo offerti dalla piattaforma?
Problemi di immagine e calo di popolarità
Insomma, Facebook è al centro di numerose controversie. E l’immagine che proietta almeno da un anno a questa parte non è certo positiva. Lo conferma anche il forte calo di attrattività di Facebook presso i neolaureati che cercano lavoro nelle tech company della Silicon Valley. Alcuni reclutatori già attivi con Facebook hanno dichiarato alla CNBC che fino a due anni fa il tasso di successo di Menlo Park nell’iter di assunzione delle nuove risorse era dell’85%, mentre oggi si è ridotto al 50%. In altri termini, metà dei giovani selezionati da Facebook preferisce accettare le offerte di lavoro di altre società. E il problema non è certo economico, visto che la retribuzione annua media in Facebook è pari a 210 mila dollari. I dubbi dei candidati riguardano da un lato l’eticità dell’azienda, dall’altro la sostenibilità nel tempo del suo modello di business.
Il rimprovero che arriva da più parti è relativo all’incapacità palesata nella gestione di una serie di dinamiche distorte e di accettarne le conseguenti responsabilità. In un certo senso ciò è comprensibile, poiché mai prima nella storia era stata costruita una rete sociale così vasta e capillare. Tuttavia l’inesperienza non può essere usata come alibi per giustificare i gravi accadimenti di cui Facebook si è resa complice. Dettati in larga misura da inadempienze e superficialità.
I giovani vanno altrove
Facciamo parlare i numeri. E partiamo da quelli che si possono considerare gli abitanti nativi del mondo dei social network: i giovani. Come spesso accade in materia di entertainment sono proprio i più giovani ad agire da trend setter. E i ragazzi stanno abbandonando Facebook. In massa.
Il dato si inserisce in un quadro di disaffezione verso i social media più generale. Secondo una ricerca condotta dalla divisione Origin di Hill Holiday, più della metà dei giovani intervistati ha dichiarato di essere in cerca di sollievo – seeking relief – dai social media. Stanchi di perdere tempo sulle piattaforme, della troppa negatività che vi circola, dello scarso interesse verso i contenuti e dell’esigenza di mantenere privati alcuni aspetti della propria vita.
All’interno di questo scenario, secondo le ultime previsioni di eMarketer sull’utilizzo dei social network, nel 2018 Facebook ha perso 2 milioni di utenti sotto i 24 anni d’età. La piattaforma continua a crescere, ma non grazie ai giovani. Gen Z e Millenials si spostano verso altre piattaforme, Instagram e Snapchat su tutte.
Facebook è diventato il social network degli adulti. Dove le conversazioni sono sempre meno incentrate su tipici argomenti di intrattenimento giovanile e sempre più legate a temi sociali e politici. Come spesso accade quando la palla passa agli adulti, entrano in gioco degli interessi. E quando entrano in gioco degli interessi – spesso e volentieri – si creano storture.
Il peccato originale
Facebook ha iniziato a perdere appeal nel momento in cui è stata associata – in negativo – a due dei più importanti e sconvolgenti accadimenti politici avvenuti negli ultimi anni: le presidenziali USA del 2016 e la Brexit.
Il nome che viene subito in mente è quello di Cambridge Analytica, società di marketing (vicina alla destra statunitense) specializzata in campagne di microtargeting basate sui principi della psicometria. La società, oggi fallita, è stata accusata di ingerenze e manipolazione della campagna elettorale statunitense in favore dell’attuale presidente Donald Trump.
La vicenda è a dir poco complessa (ne abbiamo parlato in un post su microtargeting e fake news e in un successivo articolo sul GDPR). In tutto ciò, molto dell’accaduto viene rimproverato a Facebook.
Proprio Facebook, a cui gli utenti affidano i loro dati fiduciosi, della garanzia accordata nei confronti della loro privacy, non ha saputo proteggerli dai comportamenti dannosi di pochi individui. Dalle notizie false e dalle campagne d’odio. Dalle gravi ingerenze esterne avvenute nelle elezioni politiche del più potente paese democratico al mondo.
A fronte di tutto ciò, lo stesso Mark Zuckerberg si è dovuto scusare di fronte al Congresso USA per l’operato della sua azienda.
Non solo USA: lo strano caso di Ebbw Vale
È di qualche settimana fa l’intervento di Carole Cadwalladr al TedxVancouver 2019 (il discorso di Cadwalladr è stato nominato al premio Pulitzer). La giornalista dell’Observer ha analizzato e portato in evidenza le similitudini tra la Brexit e le elezioni presidenziali americane del 2016. E ha mostrato come, dietro le quinte di questi discussi esiti politici, abbiano agito le stesse persone, le medesime dinamiche, gli stessi nomi – Cambridge Analytica – e lo stesso palcoscenico: Facebook, appunto.
La Cadwalladr ha analizzato lo strano caso di Ebbw Vale, piccola località del Galles sud-orientale, i cui cittadini hanno votato per l’uscita dall’Ue (il leave ha prevalso con il 62% dei voti). La stranezza è che negli ultimi anni Ebbw Vale ha beneficiato di ingenti contributi della Ue. Grazie ai fondi europei nella cittadina gallese sono state realizzate varie infrastrutture: università, impianti sportivi, ponti, ferrovie, stazioni.
Dunque, a fronte di un tale impegno dell’Unione, la giornalista dell’Observer si è domandata come fosse possibile che le persone avessero votato per l’uscita. L’esito della sua ricerca è stato netto quanto soprendente: i cittadini hanno votato per l’uscita perché su Facebook girava voce che l’Ue non stesse facendo assolutamente niente per Ebbw Vale.
Un forte senso di irrealtà
Tutta la vicenda, per usare le parole della stessa Cadwalladr, trasmette un forte senso di irrealtà. Dalla storia di Ebbw Vale emerge la discrepanza tra la realtà oggettiva dei fatti e la realtà percepita dalle persone su Facebook. Nella piattaforma è stato costruito ad arte un sistema di fake news – basato su annunci pubblicitari targettizzati e campagne d’odio – che ha generato una bolla informativa e deliberatamente indirizzato l’intenzione di voto delle persone.
Come nel caso delle presidenziali USA, l’accaduto è imputabile non solo a chi ha intenzionalmente orchestrato la campagna elettorale, ma anche a Facebook stessa. Rea, anche in questo caso, di non aver vigilato e tutelato le intenzioni di voto dei cittadini inglesi. In quello che è stato l’evento politico più importante dell’ultimo secolo nel Regno Unito.
Non è solo un problema di contenuti
Secondo Jay David Bolter, autore dell’influente saggio Remediation: Understanding New Media, scritto una ventina d’anni fa insieme a Richard Grusin (Cambridge, The MIT Press, 2000), non è solo un problema di contenuti. Per Bolter – che ne parla del suo nuovo libro The Digital Plenitude. The Decline of Elite Culture and the Rise of New Media (Cambridge, The MIT Press, 2019) la distorsione del dibattito politico online dipende dalla logica del consumo ripetitivo, alimentato dalla struttura stessa dei nuovi media. Essi coinvolgono l’utente e lo trascinano dentro un “flusso”, secondo un modello psicologico mutuato dalla strategia di design dai videogiochi. L’obiettivo è mantenere l’utente in costante movimento da un elemento all’altro, in modo ripetitivo. E la gratificazione dell’esperienza nasce dall’atto di consumare i media in questo modo ripetitivo, piuttosto che dall’impegnarsi con i contenuti dei media stessi.
Del problema Bolter si occupa in un articolo uscito in questi giorni sulla rivista “The Atlantic”, che riprende e adatta i contenuti del nuovo libro.
Fake news: Facebook corre ai ripari
Intanto Facebook cerca in qualche modo di rimediare ai danni, anche in Italia. È recente la notizia che il social network, su segnlazione della ong Avaaz, ha fatto chiudere 23 pagine italiane con quasi 2 milioni e mezzo di follower. Le pagine erano tutte vicine ai due attuali partiti di governo Lega e Movimento 5 Stelle.
Le pagine, che seminavano notizie false su numerose tematiche divisive per la campagna elettorale, sono state chiuse per la numerosa violazione delle condizioni d’uso di Facebook.
Interventi di questo tipo, peraltro, rischiano di peggiorare la situazione. Se Menlo Park dichiara di muoversi a tutela di una corretta informazione per i propri utenti, ci si domanda su quale base giuridica Facebook agisca in quanto Tribunale della Verità. A porsi la domanda, per esempio, è Guido Scorza nel suo blog sul Fatto Quotidiano:
«Dobbiamo dircelo comunque, farlo con franchezza, proprio ora che è più difficile perché più preziosa ed efficiente sembra l’azione di Avaaz e Facebook: questa è la strada sbagliata, questa è una strada che porta dritta alla giustizia privata, una strada che porta ai tribunali privati della verità, una strada che porta lontano dalla democrazia.»
Ma Facebook “funziona”?
Torniamo alla questione di partenza. Aziende, brand e celebrità cominciano a manifestare dubbi sulla convenienza degli investimenti che sono necessari per godere di un’adeguata visibilità su Facebook. Certo, il social network di Mark Zuckerberg raggiunge un bacino potenziale di pubblico enorme. Ma nella maggior parte dei casi si tratta di traffico che converte in misura assai modesta. Il punto è che dietro un like non c’è necessariamente un reale interesse nei confronti dei contenuti condivisi. Senza contare che il controllo dell’utenza è saldamente in mano a Facebook, dal momento che i dati relativi all’audience sono condivisi solo in misura minima con gli investitori pubblicitari. L’inserzionista rischia di pagare per alimentare un asset che non gli apparterrà mai.
Che cosa succede, dunque, se l’efficacia di Facebook viene messa in discussione proprio da chi in questi ultimi anni ha investito quote crescenti del proprio budget di comunicazione? Non si tratta di una domanda accademica. Di recente, infatti, importanti aziende e personalità di spicco hanno deciso di abbandonare Facebook.
Se i brand se ne vanno
All’inizio il fenomeno sembrava riguardare solo le piccole aziende, ma poi anche diversi big hanno detto basta. Alla fine del 2018, per esempio, il noto produttore di software Basecamp si è proclamato 100% Facebook free. Lo stesso ha fatto, sempre lo scorso anno, la catena di pub britannica Wetherspoons. Particolarmente clamorosa la fuoriuscita da Facebook di Tesla e SpaceX, annunciata dallo stesso fondatore Elon Musk nel marzo del 2018.
Più recentemente è stata la volta di Lush. Lo scorso 8 aprile il popolare brand di cosmetica ha annunciato la decisione di chiudere le sue pagine social. Non ha senso, sostiene Lush, seguire le logiche degli algoritmi e pagare per raggiungere la propria community. L’invito del brand è di spostare le conversazioni con i propri clienti sui canali proprietari.
Va detto che la decisione di Lush è stata criticata da molti osservatori, che l’hanno giudicata inefficace, inopportuna e contradditoria.
Diversi i motivi che hanno spinto Unicredit – principale gruppo bancario italiano per attivi totali – a chiudere i propri account Facebook, Messenger e Instagram (tutti parte del gruppo Facebook). In questo caso la critica velata, rivolta dalla banca al gruppo di Menlo Park, è di non aver realizzato le aspettative promesse in materia di tutela di dati e privacy che Facebook si era impegnato ad ottemperare, in seguito ai numerosi scandali accaduti.
Il fronte del rifiuto si allarga
Passando alla politica, dove il brand non è l’azienda ma la persona, anche la giovane deputata USA Alexandria Ocasio-Cortez, astro nascente dei democratici USA, ha dichiarato il suo abbandono di Facebook. La Cortez sostiene che i social «causano isolamento, depressione, ansia e dipendenza». Va detto che la deputata, salita alla ribalta anche grazie ai social, non chiuderà i suoi account Twitter e Instagram, ma ne limiterà l’uso.
Un’altra politica che ha detto no al social network di Zuckerberg è Lisa Helps, sindaca di Victoria (Canada), la quale in un post del suo blog ha definito Facebook «una camera dell’eco tossica», confessando il suo bisogno di ridurre le distrazioni e di ricercare conversazioni più autentiche.
Fra le personalità dell’informazione e dello spettacolo che hanno chiuso il loro account su Facebook negli ultimi mesi, o hanno annunciato l’intenzione di farlo, si segnalano giornalisti come Kasie Hunt (NBC News) e Walt Mossberg (The Wall Street Journal), famosi attori quali Will Ferrell, Rosie O’Donnell e Jim Carrey, scrittori come Jessica Valenti o imprenditori come Brian Acton e Steve Wozniak, rispettivamente cofondatori di WhatsApp e Apple.