Per adeguarsi al GDPR, la Google Marketing Platform diventa sempre più una ‘scatola nera’. Una mossa da monopolista contestata da molti inserzionisti.
Com’è noto, ormai da un anno Google non fornisce il DoubleClick ID dei navigatori agli inserzionisti che effettuano il trasferimento dei dati disponibili nei moduli Display & Video 360 e Campaign Manager che fanno parte della Google Marketing Platform. L’ID può ancora essere usato, ma solo all’interno della piattaforma stessa.
Senza DoubleClick ID, tutto più difficile
La circostanza, secondo Google imposta dal GDPR, ha subito generato un certo scontento nel mondo dell’advertising. È chiaro infatti che il DoubleClick ID è necessario per misurare le performance delle campagne multicanale, ossia quelle che sono condotte su più piattaforme. L’identificativo consente a un brand di verificare, per esempio, che l’acquirente di un determinato prodotto venduto su una piattaforma di e-commerce coincida con l’utente che ha visualizzato l’inserzione relativa a quel medesimo prodotto. Senza DoubleClick ID, tutto diventa più difficile.
Ma non c’è solo questo. Da maggio 2018 Google ha anche smesso di fornire i cookie ID criptati e le liste con i nomi degli utenti ai clienti che estraggono i dati da Ad Manager, anche se permette l’utilizzo di tali dati all’interno della propria trading solution di online advertising.
Google Ad Manager è la piattaforma programmatica di Google che governa l’incontro in tempo reale tra domanda e offerta di advertising. Ad Manager, che integra i ‘vecchi’ DoubleClick for Publishers e DoubleClick Ad Exchange, è un vero e proprio marketplace per la compravendita di spazi pubblicitari online di tipo display. I dati di Ad Exchange consentono di analizzare l’audience in dettaglio e quindi di massimizzare la performance delle campagne pubblicitarie online (per approfondimenti, rimandiamo a questo post sul programmatic adv di Tommaso Verzeletti).
Non solo GDPR e privacy
Il punto è che quello relativo alla privacy è un dossier sempre più caldo per il business della pubblicità online. Non c’è solo il GDPR in Europa. Anche negli Stati Uniti da qualche tempo si respira un clima diverso. Basti pensare allo spirito del California Consumer Privacy Act (CCPA), che è stato varato nel giugno dello scorso anno è che entrerà pienamente in vigore fra sei mesi.
Che il vento stia cambiando rapidamente lo hanno compreso un po’ tutti. Non è un caso, per esempio, che Apple abbia incluso nella versione del browser Safari presentata la scorsa estate funzionalità per contrastare i metodi di ad-tracking e le tecniche di rilevamento delle impronte digitali dei dispositivi che inserzionisti e intermediari di dati dell’advertising utilizzano per monitorare gli utenti del web durante la navigazione.
Nella risposta di Mountain View alle nuove sfide in materia di privacy non pochi hanno letto un tentativo di rendere ancora più chiuso il proprio ecosistema di online advertising. Il rischio è che gli inserzionisti siano costretti a utilizzare solo gli strumenti della suite Google Ads e che si trovino rinchiusi in un autentico ‘walled garden’.
Nel frattempo, Google prosegue nel tentativo di espandere il proprio Ads Data Hub, integrando sempre di più YouTube, DoubleClick e Google Display Network. Ma che credibilità può avere l’Ads Data Hub, dal momento che nessun sistema di terze parti può verificare i dati inseriti in esso per le campagne su YouTube? Di fatto, si tratta di una scatola nera. Forse la privacy è garantita, ma non così la trasparenza.
Alternative?
Insomma, da un lato si conferma la regola principe di Internet, secondo la quale chi ha più dati consolida nel tempo la propria posizione competitiva, rafforzando il vantaggio nei confronti della concorrenza, dall’altro lato l’atteggiamento del monopolista suscita dubbi e obiezioni crescenti. La tutela della privacy rischia di apparire un alibi, dietro cui Google nasconde altri obiettivi.
Ci sono alternative a questo stato di cose? In una recente intervista rilasciata ad Adweek, Maja Milicevic, principal di Sparrow Advisers, osserva che la posizione dominante di Google nel mercato dell’ad serving buy-side risale a quando esistevano poche alternative. E aggiunge: «gli inserzionisti sono stati poco incentivati a rivalutare le scelte compiute in passato, particolarmente negli Stati Uniti in cui c’è un atteggiamento più conservatore» (traduzione nostra).
Niente da fare, dunque? Non è detto. Da tempo realtà come AppNexus, The Trade Desk, LiveRamp e Index Exchange collaborano per creare Advertising ID Consortium. L’obiettivo è pervenire a un identificativo standardizzato che sia abbastanza diffuso da offrire ai marketer le stesse opportunità di targeting garantite oggi da Google e Facebook. I prossimi anni saranno decisivi per capire se il mercato pubblicitario online resterà in regime di oligopolio e se si aprirà a nuovi attori.
La concorrenza potrebbe rappresentare un vantaggio per tutti. A cominciare dagli inserzionisti. L’obiettivo è semplice quanto ambizioso: democratizzare il mercato dell’online advertising, garantendo nel contempo la tutela della privacy degli utenti.