Girls Tech, storie straordinarie di donne in STEM

da | Apr 7, 2020

Una chiacchierata con Ella Marciello, creative director di Ribelli Digitali, a margine di Girls Tech. Contro le narrative limitanti, un uso diverso della lingua e più solidarietà fra donne. Per tornare a essere pioniere dell’innovazione.

L’11 febbraio si è celebrata la giornata mondiale delle donne e delle ragazze nella scienza. I Torino Digital Days e Synesthesia hanno deciso di celebrarla con la seconda edizione di Girls Tech, giornata di tecnologia “al femminile”. In un caldo pomeriggio di febbraio decine di professioniste del settore digitale, tech e marketing si sono ritrovate in Talent Garden Torino – Fondazione Agnelli per combattere le disparità di genere nel mondo della tecnologia: una questione attuale, come conferma la ricerca Spindox-RdS realizzata a fine 2019.

Un evento in due parti, Girls Tech. Di quelli che non capitano spesso: un pomeriggio di lavoro, tecnologia e network tutto al femminile e una giornata di laboratori per bambine e ragazze per avvicinarle al mondo delle STEM. Un appuntamento per donne addette ai lavori e alleati convinti che il gender gap sia una minaccia reale per il futuro del digitale e che inclusione e parità salariale significhino maggior progresso e giustizia sociale per tutti.

Molte le speaker autorevoli e le declinazioni di tecnologia al femminile offerte durante i panel di Girls Tech. Spesso scordiamo che le donne hanno sempre fatto parte di questo universo e guidato progetti pionieristici nell’Information Technology.

Girls Tech Torino, 11 febbraio 2020.

Un mondo senza uomini

«Sapevate che durante la Prima Guerra Mondiale ci si svegliò in un mondo senza uomini?» ha raccontato Livia Iacolare, Strategic Partnership Manager di Facebook. Le donne, rimaste a presidiare le città, le fabbriche e l’intero tessuto socioeconomico si misero in gioco, sperimentarono e fondarono la prima agenzia stampa d’Italia per la diffusione veloce e capillare delle notizie dal fronte. L’Ufficio Notizie, con un presidio in 8400 paesi d’Italia, 17 capitali nel mondo e 25.000 donne volontarie, fu il primo esperimento di reportage di guerra diretto e di rete di persone riunite con lo scopo di diffondere velocemente attraverso la comunicazione tra pari notizie dei soldati in trincea. è il primo social network della storia e fu fondato da una donna, Lina Bianconcini Cavazza.

Un’altra vicenda straordinaria raccontata a Girls Tech riguarda lo sviluppo dei razzi a propulsione e l’inizio dell’era spaziale. Spesso ci si ferma a pensare con meraviglia al fatto che prima dell’avvento dei microprocessori i calcoli per i lanci dei razzi verso la troposfera venivano fatti a mano. Non tutti sanno, però, che erano mani e menti di donne.

Marta Regge, owner di eMotiv, ha portato con entusiasmo la coraggiosa storia delle donne del Jet Propulsion Laboratory della NASA, quelle che costruiscono i razzi e i rover, per capirci. Se le missioni Apollo ci hanno avvicinato alla nostra luna è stato grazie ai team di donne che in JPL calcolavano carburanti, propulsioni e traiettorie e che dagli anni ’30 in poi, in una rete di solidarietà straordinaria, hanno presidiato i laboratori NASA, formandosi, supportandosi e cercando attivamente di far crescere generazioni di donne ingegnere, anche durante il ciclo di declino delle donne in STEM. Le loro fondatrici si chiamavano Barby Canright, Virginia Prettyman e Macie Roberts.

Ella Marciello: «Comportarsi da femmina?»

E oggi? Oggi non stiamo ferme, ma torniamo ad essere pioniere nel vortice dell’innovazione e del digitale.

Ce lo racconta Ella Marciello, Creative Director di Ribelli Digitali e membro dei network per l’eguaglianza e l’inclusione Hella! e MORE+, con cui ci siamo fermate a fare due chiacchiere a margine di Girls Tech.

CC: Ella, da dove comincia il tuo percorso di consapevolezza sulle disparità di genere?

EM: Come tutte le bambine mi sono state insegnate molte cose importanti. La prima, la più fondamentale di tutte è stata: Tu sei una femmina. E le femmine devono essere carine. E stare composte. Ho chiesto, per tutta la vita, perché. A 5 anni mi sembrava incomprensibile. A 10 un limite. A 15, un’ingiustizia. Anche perché ai miei pari, ai ragazzi, veniva spesso detta un’altra cosa che non capivo. Non comportarti da femmina.

CC: Cosa significa comportarsi da femmina nella nostra società?

EM: Mostrare emozioni è considerato da femmina. Così come arrabbiarsi in modo irragionevole (irragionevole per chi? Irragionevole rispetto a cosa?).  E piangere. No, non si piange. Per nessun motivo, mai. E che non vi venga in mente di provare interesse per la danza, o per la cucina, o per il colore rosa.

Anche il lilla. Forse il lilla ancora di più. Via il lilla dalla scatola dei pennarelli.

CC: Mentre invece, questi maschi?

EM: Come esemplare maschio, devi essere forte, ogni giorno, in ogni situazione. Anche se hai 7 anni e cadi dai pattini e tutto quello che vorresti fare è farti medicare le ginocchia sbucciate e scomparire nell’abbraccio di mamma o papà. Anche se prendi un brutto voto a scuola dopo aver passato giorni interi a studiare, anche se la tua squadra perde nella partita più importante, anche se quella ragazza ti spezza il cuore, se il tuo cane muore.

CC: Un mondo che sembra quasi una gabbia…

EM: Sono le narrative limitanti con cui siamo cresciuti. E quelle con cui nutriamo i bambini e le bambine, i nostri figli, su ciò che significa essere donna. Essere uomo. Non ho buone notizie in merito: in questa narrazione, purtroppo, non c’è un lieto fine.

CC: E le conseguenze si vedono, le viviamo ogni giorno tutte noi

EM: Ogni ragazza, ogni donna, cresce con il potere limitante delle parole che le vengono insegnate, con il potere limitante delle parole che vengono usate per descriverla. Impara molto presto a sentirsi e a riconoscersi come un oggetto. Un oggetto che ha meno capacità, meno intelligenza, meno possibilità connaturate con il suo genere, meno opportunità di carriera, meno valore.

CC: Eppure spesso ci dicono che essere donna è un’arma, che la nostra femminilità ci apre porte che non ci meritiamo.

EM: Leah Sheppard, docente di Management alla Washington State University, e Stefanie Johnson, della Boulder’s Leeds School of Business della University of Colorado, hanno condotto due esperimenti diversi per provare l’esistenza del cosiddetto “effetto femme fatale”. Dallo studio emerge che le manager di bell’aspetto sono considerate meno affidabili, meno sincere e più meritevoli di “essere messe al loro posto” – di essere controllate, quindi, presumibilmente dagli uomini – a prescindere dai risultati concreti del proprio lavoro. Tutto questo nasce da uno stereotipo che ci fa credere che la bellezza, per una donna, sia una delle chiavi per fare carriera. Certo, si può ribaltare questo pregiudizio raccontando le innumerevoli storie di chi ha raggiunto il vertice con grande professionalità e con pieno merito, portando alla luce l’impegno e il sacrificio che è stato necessario per arrivare fino a lì.

CC: Non è uno scenario roseo, vivere (o sopravvivere) a questo genere di micro-aggressioni quotidiane.

EM: Lo ammetto: sono stata molto arrabbiata per questa faccenda per un sacco di anni. Le bambine e le donne nella propria vita dovranno spesso fare i conti non solo con gli eventuali vincoli sociali opposti alla propria piena realizzazione e autodeterminazione, ma anche e soprattutto con le proprie schiavitù interiori, indotte dalla fragilità dei sentimenti di autostima e di stima per le donne in generale, interiorizzata attraverso le rappresentazioni depositate anche nella lingua che parliamo tutti i giorni, dove il maschile è la declinazione ‘naturale’, il femminile solo una variazione. Questa svalorizzazione costituisce il primo gradino verso la strutturazione psichica della dipendenza dagli uomini.

CC: Come si fa a cambiare questo modo di pensare?

EM: Se la lingua è il luogo in cui una cultura stabilisce, fissa e tramanda le proprie rappresentazioni simboliche, riflettendo e alimentando anche gli stereotipi e i pregiudizi che la connotano, è nella lingua che vanno cercate le risposte in merito allo statuto dell’uomo e della donna in una società strutturata. Nella lingua in primis e in come utilizziamo la lingua per costruire le sue narrazioni. Se oggi ci troviamo qui è perché molte cose sono cambiate rispetto, ad esempio, alle possibilità avute dalle nostre nonne. Siete e siamo cresciute in un mondo in cui ci sono stati garantiti diversi diritti di base. Ma abbiamo ancora diversi problemi. Il gender gap- e il gender pay gap, come sua conseguenza- è quello di cui tutti, uomini e donne, dovremmo preoccuparci.

CC: Può essere la solidarietà tra donne, anche in contesti professionali, una soluzione?

EM: Certo. Secondo la maggior parte dei responsabili delle risorse umane di 239 grandi aziende analizzate nel report Women in the Workplace 2019 realizzato da McKinsey & Company, il gender gap è dovuto principalmente alle minori sponsorship ricevute dalle donne rispetto agli uomini e dall’assenza di lavoratrici qualificate all’interno del flusso gerarchico.

CC: Siamo davvero ancora così deboli, soprattutto in campo lavorativo?

EM: Le donne non negoziano quasi mai per se stesse sul lavoro. E ciò che è ancora più importante è che gli uomini attribuiscono il loro successo a sé stessi, mentre le donne lo attribuiscono a fattori esterni. Prova a chiedere ad un uomo perché ha successo sul lavoro. Quasi sicuramente ti risponderà: “Beh, perché sono bravo. Perché sono il più bravo”.  Se fai la stessa domanda ad una donna riceverai molti “Sono stata aiutata. Facevo parte di un buon team. Ho avuto fortuna. Ho lavorato molto duramente”.” Quello che sto cercando di dire è che a nessuno arriva una promozione, un premio o un riconoscimento, un aumento di stipendio se non crede di meritare il proprio successo. O addirittura, se nemmeno ne ha consapevolezza, di quel successo. L’ho fatto anche io. E quello che mi ha salvato, credo, è stata quella rabbia di cui parlavo prima.

CC: Come riusciremo a cambiare le cose?

EM: quello che possiamo fare come individui è diventare alleati. Alleati delle donne che lavorano con noi e per noi. Alleati degli uomini, dei ragazzi. Possiamo smettere- tutti- di rimanere incastrati nelle stesse trame. Abbiamo un enorme potere e una ancora più grande responsabilità. Io mi occupo sostanzialmente di idee e parole e so che insieme possiamo riscriverla, questa storia.

Iniziando dalle parole. Le parole sono un’arma potentissima. Le parole sono una delle cose più ribelli che abbiamo a disposizione. Tanto, ve lo diranno sempre: siete sempre arrabbiate, non fate le ribelli, non siate ribelli.

CC: E dovremmo davvero smettere di essere ribelli?

EM: Smetteremo quando le cose saranno, finalmente, giuste.

Restiamo ribelli, allora, come le altre meravigliose speaker di questa giornata ancora purtroppo eccezionale: Paola Scarpa, manager in Google e leader EMEA di Women @Google, Erika Perez, general manager di Exnar Social Value Solutions e networking advocate, Elena Ramondetti, Special Innovation Projects per Banco Azzoaglio. Donne, ribelli, in cammino.

Paolo Costa
Paolo Costa
Socio fondatore e Direttore Marketing di Spindox. Insegno Comunicazione Digitale e Multimediale all’Università di Pavia. Da 15 anni mi occupo di cultura digitale e tecnologia. Ho fondato l’associazione culturale Twitteratura, che promuove l’uso di Twitter come strumento di lettura attraverso la riscrittura.

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