Affrontiamo in quest’intervista con Piero Poccianti, Presidente di AIxIA (Associazione Italiana per l’Intelligenza Artificiale), il tema dell’Intelligenza Artificiale, in particolare analizzeremo pro e contro: tutti i vantaggi e i limiti di questa disciplina che sta rivoluzionando sia il mondo delle imprese che la nostra quotidianità. Innovazione, impresa e investimenti in ricerca: tre motori dello sviluppo su cui l’Italia ha il dovere di puntare per non perdere il treno della competitività con USA, Cina e le Global Corporate.
Per iniziare, ci può indicare quali sono gli obiettivi che si pone l’associazione italiana per l’intelligenza artificiale?
AIxIA è un’associazione scientifica senza fini di lucro, nata nel 1988 e membro italiano dell’EurAi (European Association for Artificial Intelligence), che ha come finalità quella di divulgare la conoscenza relativa a strumenti e tecniche che costituiscono la disciplina dell’Intelligenza Artificiale. L’Associazione è attiva, inoltre, nella promozione della ricerca teorica e applicata, favorendo anche la comunicazione tra i diversi settori della ricerca.
Negli ultimi anni sono state organizzate numerose iniziative pubbliche, rivolte anche ai giovani; l’ultimo in ordine temporale è stato “Voce AI ragazzi”, il primo evento-dibatto dedicato ai giovani, in particolare agli studenti dell’l’I.S.I.S. Gobetti Volta di Firenze, e alle loro opinioni sull’impatto dell’AI nella società.
A Milano, invece, si terrà l’AI Forum, presso Palazzo Mezzanotte a Milano, che offrirà ai partecipanti l’opportunità di condividere l’evoluzione tecnologica guidata dall’Intelligenza Artificiale e promuoverne così lo sviluppo grazie alla sua applicazione nelle aziende. Giunto alla sua seconda edizione, l’evento ha lo scopo di favorire il dialogo tra mondo imprenditoriale e della ricerca, al fine di creare una sinergia e una piattaforma condivisa per entrambi.
Come è cambiata l’intelligenza artificiale dal suo inizio ad oggi?
La disciplina dell’Intelligenza Artificiale nasce nel 1943 con l’articolo di McCulloch e Pitts sui neuroni artificiali, a cui fa seguito, nel 1950, l’articolo di Turing Computing machinery and intelligence, apparso sulla rivista Mind, in cui ci si chiede se una macchina sia in grado di pensare. Bisogna aspettare però la conferenza di Dartmouth nel 1956 anno in cui si inizia ad utilizzare per la prima volta il termine “Intelligenza Artificiale”.
La storia della disciplina è costellata non solo da momenti di grande entusiasmo e da altri di ampia delusione, definiti dagli studiosi come Inverni e Primavere dell’IA, ma anche dallo sviluppo, suddiviso in wave, dei diversi paradigmi, ovvero logica, ragionamento, apprendimento e percezione. La prima ondata ha conosciuto il progresso del ragionamento, mentre la seconda, quella attuale, è maggiormente legata alla percezione.
Per entrare nel dettaglio, possiamo scomporre l’Intelligenza Ristretta in quattro diverse capacità:
- Percepire: la facoltà di percepire la realtà, di vedere o di sentire (sia dei suoni generici ma anche il parlato). Tale abilità consente il riconoscimento di pattern e quindi di modelli diversi, in grado di eseguire delle diagnosi assolutamente accurate.
- Imparare: non si deve necessariamente insegnare alla macchina dei concetti, in quanto capace autonomamente di imparare da esempi. Su tale paradigma bisognerebbe avanzare una precisazione aggiuntiva, il processo infatti non è ancora efficiente dato che per insegnare a una macchina a riconoscere un gatto devo fornirle 1 milione di esempi, un procedimento che richiede anche una quantità significativa di energia.
- Astrarre: a partire da eventi percepiti e dal processo di apprendimento, la macchina è in grado anche di effettuare delle analogie o di astrarre dei concetti.
- Ragionare: la capacità di produrre un pensiero logico, a partire da concetti, informazioni e regole, o anche di trarre delle evidenze precedentemente non esplicitate.
Fino al 2005 circa abbiamo osservato lo sviluppo di macchine particolarmente abili nel Ragionamento, ma carenti dal punto di vista della Percezione e dell’Apprendimento. Dal 2005 in poi, utilizzando le tecniche e gli algoritmi nati nel 1986 con la pubblicazione del libro Parallel Distributed Processing da parte di un gruppo di esperti del MIT, abbiamo iniziato a sfruttare più efficacemente il Deep Neural Network e siamo così riusciti ad ottenere macchine in grado di percepire e imparare dagli esempi.
È la capacità di astrarre però a presentare ancora significativi limiti ed è proprio per questo motivo che la ricerca si concentra su questo campo. Attualmente si cerca di sviluppare algoritmi che consumino meno energia e che, di conseguenza, siano capaci di imparare velocemente impiegando il minor numero di esempi possibili. L’integrazione dei vari paradigmi potrebbe permetterci di ottenere macchine in grado sia di effettuare analogie su contesti diversi che di spiegare il loro comportamento.
Oggi, infatti, l’impossibilità dell’IA di giustificare il proprio comportamento costituisce un limite, che possiamo riscontrare anche nell’intelligenza umana. Quando agiamo istintivamente possiamo solamente “immaginare” una possibile motivazione per il nostro comportamento, perché nel momento in cui l’azione viene compiuta il nostro cervello non stava ragionando.
Alla luce di quanto appena esposto, possiamo tranquillamente affermare che la ricerca è ben lontana dal produrre una General Artificial Intelligence, che consiste nel desiderio di creare un essere senziente, mentre si registrano risultati decisivi nel campo dell’Intelligenza Artificiale Ristretta, che si pone lo scopo di far eseguire alle macchine compiti ben precisi.
In conclusione, abbiamo oggi macchine che svolgono alcune attività in modo eccellente. Alcune sono capaci di vedere, rendendole capaci di muoversi autonomamente; altre possono effettuare diagnosi e sono dunque impiegate in medicina dato che, talvolta, riescono a raggiungere risultati migliori rispetto a quelli dei medici; altre infine sono capaci di sostenere conversazioni, e sono state utilizzate per realizzare assistenti vocali o call center. Pur trattandosi di colloqui di breve durata, le macchine riescono a riconoscere il parlato e a rispondere, oppure tramite comandi riescono anche ad accendere la luce, aumentare il riscaldamento, aprire una serra, accendere il forno e molto altro ancora.
Parliamo del tema Intelligenza Artificiale Pro e Contro: quali saranno i maggiori benefici che porterà in futuro questa disciplina? E quali i limiti?
Prima di iniziare ad elencare i benefici, vorrei innanzitutto ricordare che lo sviluppo dell’IA, come di qualsiasi altra tecnologia, ha come scopo ultimo quello di rendere il più efficiente possibile il lavoro dell’uomo. Risultati decisivi li abbiamo ottenuti in vari campi e settori, si pensi alla diagnostica o all’analisi dei dati; tuttavia, l’utilizzo e l’impiego dell’AI deve considerare alcuni aspetti di natura etica. Avendo infatti a disposizione degli strumenti molto potenti, è necessario saperli indirizzare verso le finalità corrette. E qui arrivano i limiti della disciplina: se l’Intelligenza Artificiale dovesse essere impiegata per creare, ad esempio, armi autonome, il risultato sarebbe certamente negativo e non auspicabile; se invece indirizziamo l’AI verso obiettivi benefici ne trarremo enorme utilità. Consideriamo ad esempio i 17 obiettivi di sviluppo sostenibile concordati dall’ONU, l’IA potrebbe aiutarci a raggiungerli? La risposta è assolutamente positiva, come mostrato anche dal report McKinsey che indica i 160 strumenti e tecniche AI in grado di supportare i Paesi al loro raggiungimento.
L’Intelligenza Artificiale potrebbe davvero rivelarsi uno strumento potente ma indispensabile per risolvere alcune problematiche che interessano la particolare era storica che stiamo vivendo – ambiente, distribuzione equa del benessere e superamento del modello economico vigente.
Quanto stanno investendo USA ed Europa in intelligenza artificiale?
A livello generale, il mondo della ricerca è in fermento. Soprattutto negli USA, dove gli investimenti sono guidati dalle grandi aziende e dalle multinazionali, mentre il mondo accademico e quello della ricerca universitaria rimangono in secondo piano. Anche nel caso in cui si dovessero trovare eccellenze nel mondo accademico, molto spesso i benefici sono poi sfruttati dalle grandi aziende, che portano via i ricercatori.
La Cina investe ancora più degli USA, adottando, al contempo, un approccio differente, più centralizzato e governato nel quale a guidare la ricerca è il mondo accademico e non le aziende.
Se consideriamo gli investimenti, USA e Cina investono più di 5 miliardi di euro l’anno, a fronte dei 2 miliardi dell’Inghilterra, dei 300 milioni di Germania e Francia e dei nostri 160 mln (ancora in fase di definizione con un progetto del MISE).
In Europa siamo a metà strada, abbiamo ancora una ricerca d’eccellenza che si sviluppa sia grazie al mondo industriale che a quello accademico, anche se, purtroppo, vengono messe in campo risorse monetarie nettamente inferiori rispetto alle altre due super potenze. Gli stanziamenti previsti in ricerca sono di 2,7 miliardi di euro nel piano 2021-2027, una cifra insufficiente anche se sommata agli ulteriori investimenti di Germania e Francia.
Per non rimanere indietro nello scenario internazionale l’UE ha visto nascere una serie di iniziative. Tra queste mi sentirei di citare il CLAIRE, un network di ricercatori, associazioni scientifiche e laboratori che punta ad aggregare la ricerca in IA, nel tentativo di massimizzare gli investimenti, costituire un’infrastruttura unica europea e promuovere lo studio interdisciplinare dell’Intelligenza Artificiale. AIxIA è stata la prima associazione ad aderire al network.
“L’Intelligenza Artificiale potrebbe davvero rivelarsi uno strumento potente ma indispensabile per risolvere alcune problematiche che interessano la particolare era storica che stiamo vivendo”
Quanto sta investendo invece l’Italia in IA?
La ricerca italiana è sana, come viene anche dimostrato dalle classifiche condotte a livello internazionale. Ad esempio, detiene il settimo posto in termini di citazione degli articoli di ricerca che risultano quindi particolarmente apprezzati dagli esperti e studiosi del settore in tutto il mondo.
L’Italia presenta quindi una ricerca di qualità. La vera sfida di oggi consiste però nell’arginare e limitare la “fuga dei cervelli” all’estero che interessa giovani e promettenti ricercatori i quali vanno via dall’Italia attratti da migliori prospettive di carriera. Una situazione, a mio parare, in rapido peggioramento.
Dal punto di vista aziendale, abbiamo molte start-up, spesso interessanti e promettenti, che purtroppo sono sotto-finanziate e sottocapitalizzate e in molti casi, se sviluppano idee di valore e di qualità, vengono spesso acquisite da grandi gruppi esteri.
Vi è però un altro problema all’interno del mondo imprenditoriale italiano, come segnalato dalle ricerche condotte dall’Osservatorio Artificial Intelligence del Politecnico di Milano. In particolare, l’anno scorso è emerso come la maggior parte delle aziende, pur affermando di sapere cosa fosse l’IA, alla prova dei fatti rivelavano regolarmente di non conoscerla affatto, sbagliando definizioni o ignorandone i concetti basilari. Quest’anno la nuova ricerca sembra evidenziare un lieve miglioramento, grazie al fatto che le società si stanno informando di più per comprendere come applicare l’AI e poterne così sfruttare i vantaggi.
Tutt’altro discorso riguarda la situazione governativa. Due anni fa l’Europa ha pubblicato un documento programmatico con il quale si richiedeva a tutti i Paesi europei di scrivere un paper di strategia per definire gli obiettivi programmatici. L’Italia è l’unico Paese che non ha risposto. È stato però redatto dal MISE un documento, realizzato da vari esperti del settore (alcuni dei quali appartenenti all’Associazione), che prevede un investimento di 1 miliardo in IA, ma si tratta ancora di una bozza in via di definizione.
Il ritardo italiano di evince anche dal numero di corsi universitari dedicati all’AI. Rispetto a Germania e Francia, che hanno istituito rispettivamente 100 e 200 lauree specifiche, in Italia se ne contano solo 5. Per far fronte a questa situazione, l’Associazione è tra gli enti promotori di un’iniziativa – ancora da approvare– che ha come scopo ultimo quello di conferire 100 nuove borse di dottorato, con 10 milioni di euro di investimento.
Pur aumentando i corsi di laurea o i dottorati, ci sarebbe tuttavia il rischio di veder fuggire all’estero le persone formate visto che il livello di preparazione fornito dagli Istituti universitari italiani è eccellente e viene riconosciuto anche dagli altri Paesi europei
L’intervento del Presidente Piero Poccianti all’evento “Creare nuovo valore per le aziende con Big Data e Intelligenza Artificiale: scenari, casi e prospettive” del 29/11/2019 presso il comune di Bagno a Ripoli, Firenze.
Qual è la metodologia giusta che un’azienda deve adottare per affrontare un progetto di IA? Quale formazione serve in azienda?
La situazione attuale dell’IA è caratterizzata dalla presenza di progetti, non di prodotti “a scaffale” (tra i pochi possiamo citare Amazon Echo o l’interfaccia Google o alcuni esempi di call center, che in ogni caso vanno personalizzati). Tuttavia, per le piccole e micro-imprese, lavorare su progetti, spesso a lungo termine e dispendiosi in termini economici, può risultare complicato e difficile. Tali realtà dispongono infatti di risorse limitate e, dovendo prevedere e quantificare le spese e la redditività a priori degli investimenti da effettuare, si trovano così impossibilitate ad adottare tale approccio. Molto spesso un ulteriore problema è rappresentato anche dal fatto che non si riesce a stabilire con precisione gli obiettivi del progetto, o perché non si hanno i dati a disposizione oppure per carenze nella cultura imprenditoriale.
L’unico modo è quello di lavorare insieme alle associazioni di categoria o con le organizzazioni di imprese, seguendo, ad esempio, il modello dei distretti industriali. Tale modello potrebbe funzionare non solamente per l’Italia ma anche per tutta Europa – che presenta un tessuto imprenditoriale simile a quello nazionale.
Oltre alla creazione di reti di imprese, bisogna porre l’attenzione sul fatto che l’unica metodologia funzionale, se si prende in considerazione il modello progettuale, è quella Agile, che prevede un avanzamento step by step. Si procede quindi progressivamente, rendicontando gli investimenti e i risultati raggiunti. Metaforicamente parlando, è come se ci dovessimo immergere in una vasca di acqua bollente: è meglio iniziare mettendoci un dito.
Qualunque sia l’esito finale, positivo o negativo, il primo aspetto da considerare è in ogni caso quello di convincere l’azienda che il progetto stesso deve essere inteso innanzitutto come un momento di formazione, ossia di acquisizione di competenze e know how. Si tratta dunque di un investimento sul valore immateriale dell’azienda. Affinché non si generi troppa delusione bisogna anche trasmettere i giusti messaggi alle aziende che intendono adottare il modello Agile. In primo luogo, è necessario essere chiari e far comprendere che non si può stravolgere l’azienda in soli 2 anni tramite l’adozione di un progetto di IA e, in secondo luogo, dobbiamo discostarci dal filone narrativo creato dalle grandi corporate americane, secondo il quale tutto è facile e possibile. I pro e i contro dell’AI devono essere ben spiegati e compresi, e le aziende e gli imprenditori devono essere consapevoli sia delle possibilità ma anche e soprattutto dei limiti dell’AI.
Come insegnare l’AI alle persone che sono già impegnate in azienda? Quale l’approccio giusto?
Gli altri Paesi si avvalgono dei dottorati di ricerca, che vengono assunti dalle aziende e impiegati per risolvere problemi specifici tramite progetti definiti. Un modello largamente impiegato in Germania dove i ricercatori per tre anni affiancano le persone che lavorano in azienda e lavorano su un progetto di ricerca specifico. Non basta fare un corso interno per insegnare la materia e comprenderne i vantaggi, è infatti necessario lavorare sul campo su progetti e problemi reali e concreti per imparare veramente. Da noi il dottorato non è assolutamente sfruttato in tal senso, mentre dal punto di vista aziendale sarebbe molto appetibile.
Un secondo approccio, per superare la barriera culturale delle imprese, consiste nell’affrontare l’argomento che queste macchine possano, in futuro, eseguire il lavoro degli uomini, e, di conseguenza, sostituirli. Su questo aspetto andrebbe fatta chiarezza: se l’obiettivo primario è quello di ridurre i costi, il risultato potrebbe essere negativo (il costo del personale è spesso quello più alto); se però la tecnologia viene utilizzata per creare nuovi servizi, migliorare le condizioni di lavoro, destinare le macchine al lavoro ripetitivo e burocratico lasciando quello creativo alle persone, allora sarebbe più semplice abbattere la paura e far accettare l’IA da tutti.
Informazioni su Piero Poccianti
Si avvicina al mondo dell’informatica già a 14 anni grazie ai racconti di fantascienza di Asimov, dove il computer che diventa autocosciente ha avuto un ruolo fondamentale, avvicinandolo alla disciplina. Studia successivamente Fisica all’Università di Firenze e lavora prima sui sistemi di cartografia tematica, sul controllo di processo e sull’automazione industriale. Dal 1980 inizia il suo percorso professionale presso il Gruppo MPS, dove utilizza applicazioni di Intelligenza Artificiale per alcuni progetti.
Dal 2000 fa parte del Direttivo dell’Associazione Italiana per l’Intelligenza Artificiale, di cui diventa Presidente a partire da dicembre 2017.