Produrre senso, restare umani. La lectio di Floridi all’incontro di MEET su cultura e innovazione. Il capitale semantico al centro di una nuova etica digitale.
Il capitale semantico ci rende eccezionali
“Eravamo al centro dell’Universo, arriva Copernico, ci sposta. Ci siamo messi al centro del mondo biologico, arriva Darwin, ci sposta. Eravamo certi di possedere una coscienza, Freud ce la toglie. Ci rimaneva solo il mondo del ragionamento logico e dell’informazione. Ma arrivò Alan Turing e ci tolse anche da quella posizione privilegiata” (Luciano Floridi)
Se oggi, grazie all’intelligenza artificiale, le macchine sono in grado di fare tante cose in maniera molto veloce e precisa, ma soprattutto in autonomia, in che modo noi esseri umani siamo ancora eccezionali? È quanto si è domandato Luciano Flòridi, professore di Filosofia ed Etica dell’Informazione e Direttore del Digital Ethics Lab presso l’Università di Oxford, all’appuntamento organizzato da Meet e da Fondazione Cariplo il 4 luglio 2019 a Milano.
Floridi è riuscito a presentare con leggerezza un argomento che spesso è vissuto da alcuni quasi con angoscia: la rivalità tra uomo e macchina. Siamo eccezionali nel modo in cui facciamo le cose, interpretiamo la realtà e codifichiamo i dati che ci circondano. Abbiamo una caratteristica che è solo nostra e le macchine non avranno mai. Questa ci rende unici: il nostro capitale semantico. L’espressione, coniata dallo stesso Floridi, designa tutto il bagaglio culturale che ci portiamo appresso nel corso della nostra vita e che alimentiamo giorno dopo giorno. Grazie al capitale semantico diamo senso alla nostra esistenza e a tutto quello che ci circonda. Il capitale semantico contribuisce a renderci ciò che siamo.
Reinterpreto dunque sono
Una macchina può codificare ciò che le accade intorno e capirne il significato. Ma solo noi esseri umani sappiamo attribuire senso alla realtà che ci circonda, un senso mutevole e individuale che conferiamo in base alle esperienze vissute. Grazie al capitale semantico, siamo in grado di collegare dei puntini e costruire una traiettoria di senso. Una costante reinterpretazione degli stessi fatti.
Nel ragionamento di Floridi si percepisce l’eco di Aristotele, il quale parla dell’anagnorisis (ἁναγνώρισις), il riconoscimento. È il momento in cui Edipo realizza – troppo tardi! – di avere ucciso Laio, re di Tebe e suo padre biologico, e di avere sposato Giocasta, la propria madre. Edipo è costretto a rileggere in modo nuovo avvenimenti che in quel momento avevano per lui un significato di altro tipo. Stessi fatti, interpretazione diversa. Oppure più semplicemente, come quando si legge il medesimo libro a distanza di molto tempo: ogni nuova lettura ci insegna qualcosa di inedito, che prima non eravamo ancora capaci di comprendere.
Solo l’educazione può proteggere il capitale semantico
La capacità solo umana di attribuire un nuovo senso alla realtà è da considerarsi una risorsa estremamente preziosa. Come tale va protetta e alimentata. Ogni giorno il nostro capitale semantico viene arricchito da un continuo flusso di informazioni, la maggior parte delle quali destinate a svanire molto rapidamente. Bisogna fare attenzione alla propria dieta mediatica, per preservare il valore del capitale semantico di cui si dispone. Questo è cinto d’assedio da fake news e contenuti vacui in cui ci imbattiamo sui social network. L’educazione e la lettura dei classici proteggono il capitale semantico dalla svalutazione e dall’ossidazione a cui andrebbe incontro.
Floridi conclude la sua lectio parafrasando il filosofo viennese Ludwig Wittgenstein:
“I limiti del mio linguaggio sono i limiti della mia identità”.
Noi non siamo solamente quello che è scritto nel nostro biglietto da visita, ovvero la nostra funzione: io non sono solo ciò che faccio, ma anche e soprattutto ciò che il mio linguaggio mi permette di concepire, conferendogli senso. Sono i linguaggi che sappiamo parlare a renderci ciò che siamo e che ci danno la possibilità di dialogare con mondi diversi.
Se l’ipotesi di Floridi è corretta, ecco che costruire e diffondere la cultura digitale significa soprattutto svolgere un lavoro di carattere linguistco. L’apprendimento dei nuovi linguaggi dell’informazione è fondamentale per definirci oggi come persone, per comporre la nostra identità. È un processo che bisogna portare avanti soprattutto durante l’infanzia, prima che sia troppo tardi. Questo compito spetta all’educazione.
L’ ARt di remixare la realtà
Se possiamo essere i maestri della reinterpretazione, grazie alle macchine possiamo addirittura osare di più e cercare di remixare la realtà. Nel momento in cui l’essere umano capisce qual è il suo asso nella manica, può vedere la tecnologia come uno strumento e non come un avversario. Ed è proprio seguendo questo ragionamento che Alex Mayhew, co-fondatore e Direttore Creativo di Impossiblethings, ha creato un’applicazione di successo che sta spopolando all’AGO (Art Gallery of Ontario). Lo scenario di partenza è un triste bilancio: 2,31 secondi è il tempo medio che una persona dedica oggi alla visione di un quadro, durante la visita di un museo. Un tempo che si è molto ridotto negli ultimi anni e che è ancora più basso nelle giovani generazioni.
Non stupisce vedere comitive di studenti nei musei interessati più al proprio smartphone che a un capolavoro della pittura. Non ci si meraviglia infatti nel sapere che nel 2018 il tempo medio trascorso sullo smartphone supera le due ore al giorno. L’esperienza dei media digitali rischia dunque di rivelarsi un avversario difficile da battere per quello che è sempre stato un museo.
Eppure… No, quello che avete appena visto nel filmato qui sopra non è tratto da un film di Harry Potter. Questi quadri non si muovono per magia. È ReBlink: un’esibizione che reinterpreta opere pittoriche dell’arte di tutti i tempi servendosi di strumenti digitali. Grazie alle tecnologie di Marker AR, il team di Impossibilethings ha realmente portato in vita tali opere, immergendole nella realtà attuale, vicina al visitatore.
Il lavoro brillante non sta solo nel fondere la tecnologia della realtà aumentata con la pittura, quindi banalmente nel creare movimento e interazione con il pubblico. Grazie a un attento lavoro filologico, Impossibilethings è riuscita a dare valore e sottolineare le caratteristiche che i pittori volevano mettere in evidenza, ma portandoli ai giorni nostri.
Vediamo come per esempio la Marchesa Luisa Casati, nota al tempo soprattutto perché vanitosa e appariscente, è stata rappresentata ai giorni nostri intenta a farsi selfie davanti allo smartphone.
L’idea ha avuto un tale successo che l’84% dei visitatori oggi dedica molto tempo a quadri che in passato non avrebbe degnato di uno sguardo. Il legame fra l’opera d’arte e il suo pubblico diventa così intimo da uscire dalle mura del museo che lo ha sempre custodito. Tramite una app è possibile portare ovunque un quadro: a casa, in ufficio, al supermercato. Non solo per ammirarlo ma anche per scrutarlo dall’interno, muovendosi al suo interno: l’ambiente dove per decenni il protagonista dell’opera era rinchiuso in una realtà bidimensionale, ora diventa tridimensionale grazie alla realtà virtuale. Questa è ARt.
Anche i big data emozionano
Oggi trovare il modo di rappresentare l’enorme mole di dati che circolano continuamente è una sfida che riguarda i designer di tutto il mondo (argomento al quale abbiamo dedicato un intero articolo). La creatività dell’artista diventa così postproduzione dei dati. L’artista restituisce senso e leggibilità ai dati, non solo con lettere e numeri, ma addirittura rendendoli percepibili attraverso l’appello alle emozioni. Spettacolare è la parola giusta per descrivere il modo di lavorare di Mattia Caretti e del suo studio d’arte Fuse*.
Come suggerisce il nome, tramite la fusione di arte, scienza e tecnologia, Fuse riesce a creare installazioni e performance multimediali intense e sorprendenti, capaci di coinvolgere il pubblico. Uno dei lavori presentati alla conferenza del MEET è Dökk. Si tratta di uno connubio fra big data, danza, improvvisazione e sofisticati algoritmi: ogni volta che lo spettacolo va in scena, un algoritmo elabora una sentiment analisys dei trendig topics del momento su Twitter e li trasforma in paesaggi visivi e sonori in continuo mutamento. La combinazione dei dati quindi restituisce agli spettatori una performance ogni volta diversa, poiché frutto dell’imprevedibilità dei dati.
Reinterpretare i classici riscrivendoli
Il nostro Paolo Costa, che è anche presidente e co-fondatore di Betwyll, ha chiuso l’incontro di Meet e Fondazione Cariplo parlando di libri, lettura e biblioteche. Con una ring composition si è riallacciato al tema caro a Floridi, ossia l’educazione come protezione del capitale semantico.
Betwyll è una app che abilità una nuova esperienza di lettura, una forma di social reading che tenta di coniugare il valore della lettura profonda con le opportunità del digitale. Il nome deriva dalla parola inglese twill, che designa un tipo di tessuto. Alla base di Betwyll c’è un nuovo metodo di leggere e commentare i libri, identificato tra le 15 buone pratiche per la promozione della lettura in ambito digitale dalla Commissione Europea. Lo stesso metodo è incluso tra gli strumenti di educazione civica digitale del progetto Generazioni Connesse dal MIUR.
C’è molta Fondazione Cariplo nella storia di Betwyll. L’avventura, nata con caratteristiche non profit intorno all’esperienza della comunità di Twitteratura, è infatti goduto del sostegno della Fondazione, attraverso il bando Innovazione Culturale. La starup è oggi accelerata da XEdu, il più grande acceleratore edtech d’Europa, e sta sviluppando una collaborazione con Perason nel settore dell’editoria scolastica.
La lettura al servizio del capitale semantico
La metodologia d’apprendimento promossa da Betwyll aiuta a sviluppare creatività, pensiero critico e capacità di sintesi, tutti fattori indispensabili per alimentare il capitale semantico di cui ci parla Floridi. Seguendo un calendario comune che divide la lettura in sezioni prestabilite, gli utenti (soprattutto studenti, ma non solo) sono incoraggiati a leggere le grandi opere della letteratura come il Decameron di Giovanni Boccaccio, la Fabbrica di Cioccolato di Roald Dahl o l’Infinito di Giacomo Leopardi. E così, libro dopo libro, la comunità si ritrova sulla piattaforma a condividere i propri twyll (ossia i tweet di Betwyll) relativi alla comune esperienza di lettura. Si tratta di una vera e propria riscrittura dei grandi classici, vista e interpretata in maniera diversa e personale.
L’idea funziona. In Italia Betwyll ha collaborato con centinaia di scuole e decine di istituzioni. C’è poi l’uso della app in prestigiose università, come Harvard, Cardiff, CUNY, Edinburgh, Ghent, Indiana e Toronto.
Il successo è notevole soprattutto in Nord Europa. In Galles, per esempio, il metodo della TwLetteratura è utilizzato dai docenti come supporto alla didattica per promuovere il bilinguismo a favore dello studio della lingua gallese. Per questo motivo in ogni tablet dato in dotazione dalla scuola agli alunni è installata l’applicazione di Betwyll.