La pubblicità in Rete è ancora poco trasparente e pone nuove sfide sul piano della deontologia. I casi dell’influencer marketing e del retargeting. La profilazione e i rischi per la privacy. Verso modelli di online advertising meno invadenti.
In generale, la deontologia della pubblicità rimanda a tre imperativi consolidati: non ingannare, non offendere, non recare danno ad alcuno. Tuttavia la pubblicità online pone una serie di sfide nuove proprio sul piano della deontologia e dell’etica professionale. È dunque il caso di fare il punto sul tema, tenendo conto del peso crescente dell’online advertising nell’ambito della comunicazione pubblicitaria.
I recenti sviluppi del settore pubblicitario hanno visto aumentare ininterrottamente gli investimenti nell’online advertising. In Italia, dal 2006 al 2018, la quota sul totale delle spese in pubblicità è passata dal 4 al 33% (dati UPA-Nielsen). Da notare che tale crescita risulta ancora più significativa in valori assoluti, se consideriamo che il mercato nel suo complesso è sostanzialmente stagnante da oltre un decennio: 8,6 miliardi di euro nel 2006, contro gli 8,5 nel 2018.
Parallelamente si sono evolute le tecnologie e le soluzioni che alimentano l’intero sistema pubblicitario: gli annunci online hanno acquisito numerose forme e sono altrettanto numerosi i criteri che ne determinano la comparsa sui dispositivi di certi utenti piuttosto che di altri. L’online advertising è apparso sin dalla sua nascita come un fenomeno con una forte natura innovativa, dalla quale scaturiscono nuovi interrogativi sul piano dell’etica e della deontologia.
Riconoscibilità della pubblicità: la Digital Chart
Già nel 2016 l’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria (IAP) ha ritenuto opportuno svolgere una ricognizione sulle più diffuse forme di pubblicità online e fissare criteri per la loro riconoscibilità, nel rispetto dell’articolo 7 del Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale (CAP) secondo il quale la pubblicità «deve sempre essere riconoscibile come tale […]». La pubblicità occulta è scorretta a prescindere dal suo contenuto perché acquista una maggiore capacità persuasiva: il consumatore, nel recepirla, non è messo nelle condizioni di valutarla con quell’adeguato senso critico che invece avrebbe nei confronti di una pubblicità presentata come tale.
La Digital Chart è un documento che segna un passo in avanti importante nell’ambito della deontologia della pubblicità online. Esso si rivolge sia alle aziende sia ai consumatori, riportando delucidazioni circa modalità pubblicitarie quali influencer marketing, inapp advertising, advergame, native advertising, social network e content sharing. Per ognuna di queste sono fornite indicazioni per mantenere trasparenza e riconoscibilità adeguate.
Analizzando le sentenze dell’IAP dal 2014 al 2018 e distinguendo le violazioni al CAP tra quelle commesse online e quelle offline si nota un’importante discrepanza: mentre la percentuale delle violazioni dell’articolo 7 nelle pubblicità offline non raggiunge l’1%, in quelle online supera il 21% posizionandosi al secondo posto dopo le violazioni dell’articolo 2 relativo alla pubblicità ingannevole, la più frequente in entrambe le categorie.
Quello della trasparenza resta tutt’ora un tasto dolente per la pubblicità online, anche se si vedono già segni di miglioramento: nel corso del 2018 l’impiego di adeguati segni distintivi di comunicazione commerciale nell’ambito dell’influencer marketing è aumentato del 235% e a partire da gennaio 2019 due delle più importanti società di endorsement in Italia, TBS Crew e Openinfluence, hanno aderito all’IAP, impegnandosi a rispettarne il Codice.
Profilazione e behavioural advertising
La deontologia pubblicitaria incrocia poi il tema della privacy. E, anche in questo caso, il digitale pone una serie di sfide nuove. Il tracciamento delle attività di navigazione in Internet (le ricerche effettuate, le pagine visitate e la durata della visita, clic), delle interazioni sui social media (condivisioni, “mi piace”, commenti) e delle informazioni derivanti dall’utilizzo di applicazioni sui dispositivi mobili ha permesso di registrare dati riguardanti informazioni di carattere demografico, gli interessi, i gusti e gli orientamenti degli utenti. Questi dati sono utilizzati per elaborare una sorta di identità digitale attraverso la quale gli utenti sono facilmente suddivisi in cluster per pratiche di targeting da parte delle imprese.
La raccolta di enormi moli di informazioni di questo genere – i cosiddetti big data – è il presupposto dell’online behavioural advertising. Questa tecnica, abilitata dalla recente crescita degli utenti della Rete e dalle azioni da loro compiute, è utilizzata dagli inserzionisti per indirizzare agli utenti-consumatori degli annunci che corrispondano ai loro interessi sulla base dei loro comportamenti in Rete.
Adv meno invasivi e più efficaci
Come la mettiamo, sul piano della deontologia? Indubbiamente la pubblicità comportamentale, sia dal punto di vista del consumatore sia da quello dell’inserzionista, ha un carattere migliorativo: il destinatario si imbatterà in comunicazioni che saranno per definizione più coinvolgenti e interessanti, perché – in una certa misura – pensate e proposte in funzione dei suoi gusti. A questo punto parrebbe naturale che in un contesto simile le pubblicità vengano recepite come meno invasive e di disturbo favorendo una maggiore propensione da parte del consumatore a prestare attenzione al contenuto del messaggio.
Per di più l’introduzione di tecniche di profilazione ha favorito notevolmente l’ottimizzazione dei processi di segmentazione e di targeting, determinando un notevole vantaggio per le imprese. Il rapporto di interazioni da parte degli utenti con annunci pubblicitari di questo tipo, infatti, è maggiore 5,3 volte rispetto ad annunci diffusi senza nessun criterio di targeting. Invece, quando il targeting è attuato per proporre un contenuto nei confronti del quale l’utente aveva già manifestato interesse (retargeting) le interazioni sono 10,8 volte maggiori. Spindox ne ha parlato in un post dedicato a Facebook Ads.
Tutela della privacy
Va anche considerato che la registrazione di informazioni personali implica un assottigliamento della sfera privata degli utenti. Con l’applicazione del Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati (GDPR), però, sono state introdotte misure per una maggiore tutela del diritto alla riservatezza degli utenti.
Possibili effetti sui consumatori
Maggiori sono le informazioni disponibili sui consumatori, maggiori sono le possibilità di elaborare e trasmettere messaggi pubblicitari efficaci. Quando la pubblicità era diffusa esclusivamente sui media tradizionali, il consumatore, nel corso della sua esposizione mediatica, era sì sottoposto a numerose pubblicità, ma probabilmente la percentuale di quelle per lui rilevanti era sensibilmente inferiore rispetto a oggi.
Viceversa, una pubblicità più mirata, essendo accolta con maggior interesse e piacere dal consumatore, potrebbe renderlo più vulnerabile, meno capace di difendersi dall’intento persuasivo della pubblicità, che verrebbe in questo caso percepita non come un esterno tentativo di convincimento, ma piuttosto come un messaggio interamente da recepire senza troppe mediazioni. Ecco che, ancora una volta, si pongono questioni di deontologia.
Bias degli algoritmi
Inoltre, la delega di attività di targeting ad algoritmi di intelligenza artificiale può far scaturire comportamenti pregiudizievoli o non eticamente corretti. Gli algoritmi impiegati in questo ambito, per quanto autonomi, funzionano sulla base dei dati a disposizione e questo non permette loro di compiere sempre scelte eticamente corrette. È il caso di Daniel Kapp, che dopo aver cercato informazioni su internet in merito al cancro appena diagnosticatogli, si è imbattuto ripetutamente in un annuncio pubblicitario di un’agenzia di onoranze funebri.
L’autodisciplina si muove a livello internazionale
Già nel 2011 numerose aziende che operano nell’ambito della pubblicità digitale (tra cui Google, Microsoft, Yahoo!) hanno redatto il Framework for Online Behavioural Advertising, per stabilire dei principi guida (tra cui l’obbligo di informativa sulla presenza di cookie e la data security) che favorissero una maggiore trasparenza della pubblicità comportamentale e una loro migliore fruizione da parte degli utenti del Web.
Invadenza della pubblicità online
Un uso moderato degli annunci pubblicitari e corretto sul piano della deontologia in genere non crea particolari problemi. L’utente però può risentire della presenza della pubblicità laddove la quantità di annunci sia tale da influenzare negativamente la sua esperienza di navigazione. Infatti, da una parte le pubblicità possono occupare una buona porzione dello schermo, impedendo all’utente di consultarne il contenuto originale (i pop-up ad esempio richiedono un’azione forzata dell’utente per essere chiusi); attivare accidentalmente dei link ad altre pagine; presentare contenuti inappropriati e di disturbo per l’utente, andando per di più ad inficiare la reputazione del sito stesso che li ospita.
Dall’altra parte, il caricamento da parte del browser di contenuti di questo tipo (spesso multimediali) richiede un tempo maggiore. A tal proposito una ricerca di Google ha dimostrato quanto il tempo di caricamento della pagina possa essere una variabile cruciale per il comportamento degli utenti: il 53% delle persone abbandona la pagina se questa impiega più di 3 secondi per caricarsi.
Quindi, in entrambi casi, un uso eccessivo di annunci pubblicitari può portare a un precoce abbandono della pagina, lasciando insoddisfatto l’utente e causando, nel lungo periodo, importanti ricadute sul suo posizionamento nei motori di ricerca.
Coalition for Better Ads
Importanti attori tra cui Google e Microsoft ed enti che operano nel contesto mediatico digitale (European Interactive Digital Advertising Alliance, Interactive Advertising Bureau, Utenti Pubblicità Associati) hanno formato la Coalition for Better Ads per migliorare l’esperienza degli utenti del Web con le pubblicità online. In questo modo si sono potuti sviluppare e implementare nuovi standard per le inserzioni online a livello globale che rispondano alle aspettative e alle esigenze dei consumatori.
Per comprendere quali fossero le forme di pubblicità più fastidiose per gli utenti, la coalizione ha condotto delle ricerche nelle quali si simulavano delle esperienze di navigazione online: ai membri del campione veniva chiesto di leggere i contenuti di quattro diversi siti creati appositamente per la ricerca. Tre di questi presentavano vari tipi di annunci pubblicitari, uno invece ne era privo. Successivamente è stato chiesto ai partecipanti di valutare sulla base di più fattori l’esperienza avuta e di esprimersi circa i diversi tipi di annuncio riscontrati nelle varie pagine. Infine, è stata creata una classifica dei tipi di annunci pubblicitari inseriti sui vari siti web, che andava dai migliori ai peggiori.
Esiste una pubblicità online non intrusiva?
Lo studio si è concluso con l’identificazione delle “esperienze pubblicitarie” che rientrano in una data soglia di accettabilità da parte degli utenti (qui i risultati). Nel CAP non viene fatto riferimento in modo esplicito all’invadenza della pubblicità. Del resto, una pubblicità invadente e quindi fastidiosa ha un effetto discreditante sulla pubblicità in senso lato e in questi termini, allora, si potrebbe chiamare in causa l’art.1 «La comunicazione commerciale deve essere onesta, veritiera e corretta».
Due esempi di pubblicità non intrusiva possono essere il native advertising e il branded content. Gli elementi del primo si collocano allo stesso livello di quelli editoriali della piattaforma in cui si trovano sottoponendosi all’attenzione dell’utente in modo meno intrusivo rispetto ai tradizionali annunci display; il secondo è una pratica sempre più diffusa che vede la creazione e la diffusione da parte delle aziende – autonomamente o in collaborazione a un publisher di contenuti video, editoriali o di altro tipo. Quindi se prima la pubblicità era presente a corredo di contenuti interessanti per gli utenti, ora è la pubblicità stessa, in un certo senso, a essere un contenuto rilevante in grado di attirare l’attenzione dei lettori.
Accogliendo queste considerazioni, le aziende potrebbero abbandonare l’idea di una pubblicità intrusiva e sviluppata attorno ad una dialettica persuasiva, piuttosto dovrebbe farsi spazio la ricerca di una pubblicità fondata sull’interazione spontanea, dovuta alla pertinenza con gli interessi degli utenti. Anche sul piano della deontologia, sarebbe una rivoluzione.